la Repubblica, 18 maggio 2018
Un film su Whitney Houston molestata dalla cugina
CANNES Nippy, sguardo pulito e capelli corti, è una ragazzina che incanta con il suo gospel la comunità riunita in chiesa. È il paradiso perduto che Whitney Houston, Nippy per i suoi cari, ha cercato per tutta la vita, senza ritrovarlo mai. Kevin Macdonald costruisce il documentario, Whitney, un tesoro di materiali inediti e privati, una catena di testimonianze di familiari e amici – come un’inchiesta alla ricerca del perché uno dei più grandi talenti pop sia inesorabilmente entrato in quel tunnel di autodistruzione e dipendenza terminato nella vasca da bagno di un motel nel 2012. Una investigazione che si chiude rivelando una scioccante verità sugli abusi subiti da bambina dalla cantante che costringe a rileggerne l’esistenza. Whitney è la parabola di una stella che diventa un buco nero. «Non ero un suo grande fan prima di questo film, ma ero colpito dalla forza emotiva della sua voce, capace di trasmettere le emozioni ancor più che con le parole. E volevo svelare il mistero: chi era, perché era così infelice? Ho concepito il film come un’inchiesta». Le testimonianze che ha scelto svelano molto di chi si racconta, più che di Whitney. «Amici e parenti hanno mentito per anni su quel che succedeva. Ho eliminato tantissime interviste per questo. Solo la famiglia si è pian piano lasciata andare. Il film è anche la storia di una famiglia che, come dice uno dei fratelli, nasconde molti segreti. Alla fine ne abbiamo scoperto uno dei più oscuri: gli abusi subìti dalla cugina Dee Dee Warwick che hanno distrutto e cambiato la sua vita per sempre». Girando il film pensa di aver capito qualcosa di più di questa donna? «Ho capito di cosa aveva bisogno: amore e sicurezza. Questo ha sempre cantato nelle sue canzoni: la ricerca di un approdo sicuro. Il suo passato oscuro l’aveva resa instabile e si era rifugiata in casa con i fratelli e nella chiesa. Ma la madre ebbe una relazione con il prete. I fratelli la iniziarono alla droga, il padre la derubò. E in fondo, negli anni della maturità lei ha solo cercato di circondarsi di una famiglia felice. Per questo ha sposato Bobby, per ricostruire una famiglia e andare avanti. Non ha mai voluto ammettere di essersi allontana dal sogno». È stata un’artista afroamericana in un mondo dello spettacolo ancor più ostile di quanto lo sia oggi... «Non è una coincidenza che tre grandi protagonisti dei materialistici anni Ottanta, Whitney, Michael Jackson e Prince siano morti in periodi ravvicinati e per cause simili: in solitudine, storditi dalle droghe e in lotta con la loro identità razziale. Nel film c’è qualcosa d’ironico quando Houston canta l’inno nazionale americano: lei, cresciuta tra i tumulti razziali di Newark negli anni Sessanta. I genitori avevano voluto preservarla mandandola in una scuola privata, sognavano per lei un mondo senza razzismo. Invece Whitney fin da bambina era stata bullizzata dalla comunità nera perché troppo bianca. E da adulta aveva sofferto per i fischi di chi la accusava di aver abbandonato il soul per un pop facile e bianco. Se avesse avuto accanto una guida, sarebbe potuta diventare la nuova Ella Fitzgerald. Era una grande artista che non hanno mai preso sul serio. Sono felice di renderle giustizia in questo film».