La Stampa, 17 maggio 2018
«Impegno e poesia altrimenti la vita non ha significato». Intervista a Paco Ibáñez
Di premi non vuol sentir parlare «non li voglio, per istinto», ma a Sanremo domani sarà il grande protagonista di “Complice la musica” del Club Tenco. Paco Ibáñez, classe 1934, è un monumento della cultura spagnola, senza peraltro volerlo essere. Cinquant’anni fa cantava all’Olympia di Parigi in fuga dal franchismo, metteva in musica i versi dei poeti e in platea gli altri esuli scoppiavano in lacrime. Oggi riempie i teatri e quando le piazze si mobilitano, spunta con la sua chitarra.
«Etorriko da zure soaz heriotza gor. Li riconosce?»
Francamente no.
«Sono i versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese, tradotto in basco. Sembro matto quando la canto, ma le assicuro che è magnifica».
Lei è il grande cantore di poeti. Che ruolo ha la poesia nella società contemporanea?
«Ahimè marginale e non perché non ci siano i poeti. Semplicemente non fa più parte del paesaggio popolare».
Perché invece è importante?
«La poesia è un’arma carica di futuro, diceva Gabriel Celaya. Senza poesia perdiamo tutto, perché la vita è poesia, starne lontani vuol dire allontanarsi da noi stessi».
È sempre stato così?
«Un tempo c’era più attenzione, i poeti forse erano più noti, ma è vero che la maggioranza delle persone ha sempre vissuto come se la poesia fosse una cosa aliena. Bisogna però aggiungere che ci sono tanti poeti inconsapevoli, soprattutto in Italia».
Dove li ha trovati?
«Una categoria che mi dà sempre enorme soddisfazione è quella dei tassisti. A Napoli feci un lungo tragitto. Erano gli Anni Settanta, con la Dc al potere. Il tassista era furioso, parlò per più di un’ora e alla fine trovò la definizione: “Dottore, siamo nella dittatura della delinquenza”. Una frase che ho usato per altre mille occasioni. Un suo collega di Milano, invece, mi disse: “Lei è spagnolo? Io amo Don Chisciotte della Pancia”. Sembrava un errore, ma era una formula definitiva».
Fra tutti i poeti dei quali ha messo in musica i versi a chi si sente più legato?
«A molti, ma se devo scegliere un nome dico Rafael Alberti, un uomo molto legato all’Italia, non solo per le origini, ma anche per il suo lungo soggiorno a Trastevere, in fuga dalla dittatura. Lui era comunista, io più libertario».
Lei e Alberti avete in comune il fatto di aver vissuto in esilio, durante la dittatura. Come definisce l’esilio?
«È una condizione dura. Non è tanto il fatto di essere lontani da casa, quanto piuttosto l’idea di non poterci tornare, per cause più grandi di noi. Si sopravvive, c’è l’istinto di conservazione, cercando di mettere da parte gli aspetti tragici. Ma la malinconia è connaturata a questa condizione».
Carles Puigdemont, leader indipendentista, si considera un esiliato è una definizione corretta?
«Sì. Ma per il momento è un periodo corto per essere considerato un vero esiliato».
Potrebbe diventare lungo.
«Noi democratici faremo in modo che possa tornare presto in Catalogna. Lui è una persona normale che non voleva essere un eroe. Ma le circostanze lo hanno costretto a diventarlo».
Lei è indipendentista?
«No, ma ho cantato al Camp Nou di Barcellona davanti a 80 mila persona invocando il diritto a decidere del popolo catalano. Se vogliono essere indipendenti nessuno deve impedirglielo».
Non si tratta di una maggioranza così chiara.
«Infatti. E il referendum è stata un pasticcio, represso in modo allucinante. Ma facciamoli votare e decidano loro: è la democrazia. Io non sono catalano, ma vivo a Barcellona da molti anni e posso dirlo: i catalani sono uno dei popoli più civilizzati al mondo. Anche grazie all’immigrazione, agli altri spagnoli che sono venuti a vivere e lavorare lì».
Cos’è la Spagna?
«Un insieme di nazioni, un miscuglio di popoli che mi piacerebbe potesse vivere in una repubblica».
Cosa la preoccupa di questi giorni?
«Stiamo tornando alla censura del passato. Un rapper, Valtonyc, sta per entrare in carcere perché nelle sue canzoni ha insultato la famiglia reale».
Accusa la monarchia?
«La Spagna di Isabella la Cattolica non mi interessa. Voglio la repubblica. Non so se i catalani riusciranno a ottenerla, ma solo sentirla evocare mi fa felice».
L’artista impegnato ha ancora spazio nella società?
«Se vedo un’ingiustizia mi precipito. Gli artisti oggi non si allontanano semplicemente dall’impegno politico, quanto piuttosto dall’arte stessa».
Ci sono cantanti italiani a cui deve qualcosa?
«Gianmaria Testa era un fratello. Fabrizio De Andrè un maestro. Ma il capo di tutti noi è Roberto Murolo».
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI
Di premi non vuol sentir parlare «non li voglio, per istinto», ma a Sanremo domani sarà il grande protagonista di “Complice la musica” del Club Tenco. Paco Ibáñez, classe 1934, è un monumento della cultura spagnola, senza peraltro volerlo essere. Cinquant’anni fa cantava all’Olympia di Parigi in fuga dal franchismo, metteva in musica i versi dei poeti e in platea gli altri esuli scoppiavano in lacrime. Oggi riempie i teatri e quando le piazze si mobilitano, spunta con la sua chitarra.
«Etorriko da zure soaz heriotza gor. Li riconosce?»
Francamente no.
«Sono i versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese, tradotto in basco. Sembro matto quando la canto, ma le assicuro che è magnifica».
Lei è il grande cantore di poeti. Che ruolo ha la poesia nella società contemporanea?
«Ahimè marginale e non perché non ci siano i poeti. Semplicemente non fa più parte del paesaggio popolare».
Perché invece è importante?
«La poesia è un’arma carica di futuro, diceva Gabriel Celaya. Senza poesia perdiamo tutto, perché la vita è poesia, starne lontani vuol dire allontanarsi da noi stessi».
È sempre stato così?
«Un tempo c’era più attenzione, i poeti forse erano più noti, ma è vero che la maggioranza delle persone ha sempre vissuto come se la poesia fosse una cosa aliena. Bisogna però aggiungere che ci sono tanti poeti inconsapevoli, soprattutto in Italia».
Dove li ha trovati?
«Una categoria che mi dà sempre enorme soddisfazione è quella dei tassisti. A Napoli feci un lungo tragitto. Erano gli Anni Settanta, con la Dc al potere. Il tassista era furioso, parlò per più di un’ora e alla fine trovò la definizione: “Dottore, siamo nella dittatura della delinquenza”. Una frase che ho usato per altre mille occasioni. Un suo collega di Milano, invece, mi disse: “Lei è spagnolo? Io amo Don Chisciotte della Pancia”. Sembrava un errore, ma era una formula definitiva».
Fra tutti i poeti dei quali ha messo in musica i versi a chi si sente più legato?
«A molti, ma se devo scegliere un nome dico Rafael Alberti, un uomo molto legato all’Italia, non solo per le origini, ma anche per il suo lungo soggiorno a Trastevere, in fuga dalla dittatura. Lui era comunista, io più libertario».
Lei e Alberti avete in comune il fatto di aver vissuto in esilio, durante la dittatura. Come definisce l’esilio?
«È una condizione dura. Non è tanto il fatto di essere lontani da casa, quanto piuttosto l’idea di non poterci tornare, per cause più grandi di noi. Si sopravvive, c’è l’istinto di conservazione, cercando di mettere da parte gli aspetti tragici. Ma la malinconia è connaturata a questa condizione».
Carles Puigdemont, leader indipendentista, si considera un esiliato è una definizione corretta?
«Sì. Ma per il momento è un periodo corto per essere considerato un vero esiliato».
Potrebbe diventare lungo.
«Noi democratici faremo in modo che possa tornare presto in Catalogna. Lui è una persona normale che non voleva essere un eroe. Ma le circostanze lo hanno costretto a diventarlo».
Lei è indipendentista?
«No, ma ho cantato al Camp Nou di Barcellona davanti a 80 mila persona invocando il diritto a decidere del popolo catalano. Se vogliono essere indipendenti nessuno deve impedirglielo».
Non si tratta di una maggioranza così chiara.
«Infatti. E il referendum è stata un pasticcio, represso in modo allucinante. Ma facciamoli votare e decidano loro: è la democrazia. Io non sono catalano, ma vivo a Barcellona da molti anni e posso dirlo: i catalani sono uno dei popoli più civilizzati al mondo. Anche grazie all’immigrazione, agli altri spagnoli che sono venuti a vivere e lavorare lì».
Cos’è la Spagna?
«Un insieme di nazioni, un miscuglio di popoli che mi piacerebbe potesse vivere in una repubblica».
Cosa la preoccupa di questi giorni?
«Stiamo tornando alla censura del passato. Un rapper, Valtonyc, sta per entrare in carcere perché nelle sue canzoni ha insultato la famiglia reale».
Accusa la monarchia?
«La Spagna di Isabella la Cattolica non mi interessa. Voglio la repubblica. Non so se i catalani riusciranno a ottenerla, ma solo sentirla evocare mi fa felice».
L’artista impegnato ha ancora spazio nella società?
«Se vedo un’ingiustizia mi precipito. Gli artisti oggi non si allontanano semplicemente dall’impegno politico, quanto piuttosto dall’arte stessa».
Ci sono cantanti italiani a cui deve qualcosa?
«Gianmaria Testa era un fratello. Fabrizio De Andrè un maestro. Ma il capo di tutti noi è Roberto Murolo».