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 2018  maggio 17 Giovedì calendario

I ricordi di Tara Ghandi e Kathleen Kennedy a confronto

«Il nonno mi spronò a lottare per donne e bambini indiani». Intervista a Tara Gandhi 

«Avevo solo 11 anni quando mia nonna morì in carcere. Chiesi al Mahatma Gandhi, mio nonno, che sarebbe stato assassinato tre anni dopo, come potevamo onorarla. Rispose che non servivano templi o statue. Ma che lei, analfabeta, aveva la forza di tutte le donne indiane. E che l’unico modo per onorarla era mettersi al lavoro per tutte le donne e i bambini dell’India».
Tara Gandhi Bhattacharjee, 84 anni, è l’attivissima nipote del Mahatma che ha preso in mano proprio la fondazione che porta il nome di sua nonna, il Kasturba Gandhi Memorial Trust, che dal 1948 si occupa di migliorare le condizioni di vita di donne e bambini nell’India rurale.
Suo nonno fu assassinato 70 anni fa. Il suo impegno sociale è una sorta di eredità familiare?
«L’insegnamento del Mahatma è qualcosa che ho nel sangue: fui molto vicina a mio nonno, avevo 14 anni quando fu ucciso. Ha profondamente influenzato la mia vita e raccoglierne il testimone è stato naturale. Ma il suo è un messaggio destinato a tutti. Non serve essere nati Gandhi, per seguire il suo insegnamento. Chiunque lotta per un mondo migliore segue la sua filosofia: insistere sulla verità con l’amore».
Un messaggio straordinario che lei continua a diffondere.
Domani sarà a Milano per partecipare a un panel su donne e potere: di che cosa parlerà?
«Mio nonno credeva molto nel potere che hanno le donne di cambiare le cose. Dirò che solo le donne possono traghettare l’umanità verso il futuro: costruire un mondo nuovo, senza violenza nelle menti né inquinamento nell’ambiente».
Perché solo le donne?
«Perché più degli uomini hanno la forza di fronteggiare più sfide allo stesso tempo. Per questo devono avere accesso a ruoli politici, economici, sociali sempre più importanti. Gandhi raccontava che imparò da Kasturba, sposata quando avevano 14 anni, la forza della compassione e del perdono».
Bellissime parole, ma in India la violenza sulle donne è un fenomeno sempre più drammatico. Che cosa fare?
«Lavorando sul campo ho capito che il problema non è tanto l’emancipazione della donna: quanto quella dell’uomo. Si è puntato sull’educazione delle ragazze ora è tempo d’investire di più su quella dei maschi».
Com’era suo nonno?
«Semplice, dolce, molto ironico. Ma quel che ricordo meglio è un rimprovero. Lo avevo raggiunto durante un’importante riunione e un ufficiale inglese mi chiese “ how do yo do?”, come sta? Non mi parve vero elencare una serie di malanni: avevo appena avuto l’influenza. Mio nonno mi riprese: “Impara le formalità”. Che vergogna!».
C’è un nuovo Gandhi?
«Se l’umanità ancora esiste è perché c’è un esercito di Gandhi, magari sconosciuti, veri soldati della non violenza. Sono fiera di tutti loro».
 
 
«Mio papà Robert m’insegnò il dovere di far la differenza». Intervista a Kathleen Kennedy

«Mio padre, Robert Kennedy, m’insegnò che è nostro dovere di esseri umani fare la differenza. Una lezione che non ho mai dimenticato ma che non avrei potuto mettere in pratica senza il movimento femminista: fu quello che aprì alle donne americane le porte della politica». Kathleen Kennedy Townsend, 66 anni, ex vice governatore del Maryland, vice presidente della conferenza mondiale per la Scienza e la Pace, è la maggiore degli 11 figli di Robert Kennedy: il senatore assassinato 5 anni dopo suo fratello, il presidente John Firzgerald, 50 anni fa. Era il 5 giugno 1968.
Non fu dunque la sua famiglia ad aprirle le porte della politica?
«Macché. Non era qualcosa che si aspettavano da me, una femmina. Ricordo che quando mia zia Eunice Kennedy Shriver morì, nel 2009, tutti si chiesero perché non aveva tentato anche lei la corsa alla presidenza come i suoi tre fratelli. La risposta è semplice: i Kennedy vedevano la politica come un affare di maschi. Non è curioso che fra dozzine di cugini sono l’unica ad aver corso per un seggio politico?».
Eppure suo zio Ted, “il leone del Senato” disse una volta che lei avrebbe facilmente vinto il titolo di più responsabile della famiglia. È vero?
«E lo vincerei ancora: sono la più grande e, ancora una volta, sono femmina. Mi sono sempre presa le responsabilità di tutti».
Dopo la politica, l’impegno sociale. È una vocazione che ha ereditato da suo padre?
«Mio padre diceva: “Solo Dio e gli angeli stanno a guardare. Tutti gli altri si devono rimboccare le maniche”».
Cinquant’anni dopo: qual’è l’eredità di Bob Kennedy?
«Mi colpisce come molti ricordino il suo coraggio morale. Ha affrontato la mafia, combattuto per i diritti civili dei neri, lottato contro la povertà. Era un uomo che amava davvero il suo prossimo».
Com’è stato crescere in quella che in America è considerata alla stregua di una famiglia reale?
«So di essere stata molto fortunata. Sono cresciuta in tempi interessantissimi, la mia famiglia coinvolta in battaglie come, appunto, quella per i diritti civili, e la ricerca della pace durante la crisi dei missili a Cuba. Sapendo di dover usare il potere per fare la differenza. Per questo voglio continuare a far sentire la mia voce».
Che cosa dirà parlando di “Donne e potere” proprio nell’anno che col movimento MeToo le donne sono tornate sì protagoniste, ma come vittime del potere?
«Dirò infatti che per le donne americane la ricerca della felicità di cui parla la nostra dichiarazione d’Indipenenza deve passare per un profondo cambiamento sociale e una revisione del proprio ruolo».
È una critica all’America di oggi?
«Più che mai la sfida per le donne americane è enorme. Ma il MeToo e la misogina di Donald Trump ha fatto prendere coscienza. Ci sono 32mila donne che corrono per le primarie. Vuol dire che molte di loro saranno elette. E finalmente potranno fare la differenza».