la Repubblica, 17 maggio 2018
Parla Lars von Trier: «In ognuno di noi c’è un serial killer»
Villa Zentropa, il quartier generale di Lars von Trier a Cannes, è appollaiata su una collina, la Croisette è solo una linea all’orizzonte. Nella piscina galleggiano gonfiabili rosa che rendono meno minacciosi i poster di The house that Jack built (in sala in Italia in autunno) appesi al muro, Matt Dillon con sguardo da serial killer, Bruno Ganz in un inferno dantesco con corpi nudi che gemono nelle acque. Il regista danese, 62 anni, sorride spaesato, cammina lentamente, si siede. In questi sette anni lontano dal Festival da cui era stato bandito per certe frasi infelici in cui “simpatizzava” con Hitler è invecchiato molto, le mani tremano, la parlata strascicata. «Il mio cervello è lento di mattina». Che effetto le fa tornare finalmente a Cannes? «Mi sono commosso per il calore e gli applausi che ho ricevuto qui a Cannes. È stato fantastico sentirsi di nuovo il benvenuto». In questi sette anni ha sofferto? «Moltissimo. Ho ripensato mille volte a quella conferenza che è andata storta e che mi ha reso “persona non gradita”: perché il moderatore non mi ha fermato per chiedere spiegazioni? Perché nessun giornalista ha chiesto cosa intendevo? Mi sono sentito stupido. La polizia francese ha minacciato di mandarmi in carcere per qualcosa che in Danimarca non avrebbe suscitato alcun commento: tutti sanno che non sono un nazista. Ma tutti si sono spaventati dal clamore in rete, l’istituto di cultura danese avrebbe potuto dire “non simpatizziamo con Lars, ma vi spieghiamo che è uno stupido che dice cose stupide, non un nazista”. Molte persone mi avrebbero potuto salvare e nessuno lo ha fatto». Questo film sul serial killer che uccide per creare arte è la risposta a quel che le è successo? «Gli psicopatici sono interessanti da raccontare, come insegna Patricia Highsmith. E uno psicopatico può fare quello che vuole, come Superman, dire cose stupide alla polizia e andarsene tranquillo. Credo che in qualche modo ci sia un serial killer in tutti noi... alcuni lo controllano. Il personaggio di Matt Dillon decide di non farlo. Ho mostrato con onestà il crescendo di violenza». Molti hanno lasciato la sala... «Nei miei film io cerco sempre di spingere le cose al limite. Vale anche per la violenza; sarebbe stato stupido non mostrarla. La libertà di espressione è la cosa più importante per me come artista. Tu come spettatore puoi chiudere gli occhi o lasciare la sala. Nella scena della paperetta mutilata avverto che la zampa tagliata era finta. Siamo stati gentili con lei, nessuna papera è stata maltrattata in questo film...». Il suo killer corre a pulire mille volte la scena del crimine perché affetto da disordine ossessivo compulsivo. «Sono trent’anni che ne soffro anche io, per fortuna in fase un po’ più leggera». Ha detto che è stato il suo film più difficile, perché? «Non per le riprese o gli attori, Dillon è stato fantastico. Ma per la mia straordinaria ansia e tutti gli altri problemi che non le elenco per non tediarla». Racconta un inferno estremamente realistico e dantesco. «Non credo all’inferno. Ma è divertente immaginarlo e ho attinto a molte fonti per metterlo in scena. Ho ovviamente anche letto La Divina Commedia. Anche se è molto difficile, è complicata perché Dante sta parlando dei suoi nemici, per questo l’ha progettata. È uno dei poteri che hanno gli artisti». Nel film si dice che l’arte è il veicolo perfetto per gli impulsi oscuri. «L’arte spesso ferisce gli altri. È una disciplina egoista». Ora progetta un corto? «Sì. L’étude, dieci minuti in bianco e nero basati sulle 36 situazioni a cui ricorrono le trame di tutti i film. Un piccolo gioco da fare con calma e con grandi attori, a cui tengo moltissimo».