La Stampa, 16 maggio 2018
La rotta balcanica dei migranti
Tutto accade davanti al palazzo con questa scritta incisa all’ingresso: «Qui dei criminali serbi, nella notte tra il 25 e il 26 agosto 1992, hanno dato fuoco alla Biblioteca nazionale e universitaria di Bosnia e Erzegovina. Più di 2 milioni di libri, giornali e documenti sono scomparsi tra le fiamme. Non dimenticate».
Sulla riva opposta del fiume Miljacka, nello spazio verde di un giardino pubblico, le tende si stanno moltiplicando. Arrivano i profughi. Ecco i migranti. Più di quattromila negli ultimi quaranta giorni. Dopo aver tentato di passare attraverso la Serbia e aver sbattuto contro i muri costruiti dal premier ungherese Viktor Orban, hanno eletto Sarajevo nuova capitale della rediviva rotta balcanica.
«Sembravano morti»
«Quel giorno lo ricordo perché ero andata a trovare mia sorella Raska, era il 4 di aprile», dice la signora Denisa Staffen. «C’erano sei ragazzi stesi nell’erba, proprio qui: sembravano morti. Ho chiesto se avessero bisogno d’aiuto. Erano pachistani. Stavano malissimo. Uno di loro aveva il piede quasi in cancrena, l’altro lividi al collo e ferite sul torace. Dicevano che erano stati i poliziotti serbi. Li ho portati all’ospedale e li ho sentiti urlare dal dolore, durante le medicazioni. Il giorno dopo, era già arrivato un altro gruppo di ragazzi. Il terzo giorno ho offerto 111 kebab da Osmanli in piazza Baščaršija. E adesso guarda: sessanta di queste tende le ho comprate io al Jumbo Market. Ma le hanno finite tutte. E non bastano».
Il grande esodo
È la stessa scena di sempre. Come nel 2015, l’anno del grande esodo. I bambini mangiano biscotti senza quasi togliere il nylon dalla confezione. Bucce di banana a terra. Puzza di urina. Le prime telecamere ai bordi dell’accampamento. È successo qualcosa: 9.789 migranti sono arrivati in Grecia nei primi quattro mesi del 2018, nonostante l’accordo da 6 miliardi siglato dall’Unione europea per bloccarli in Turchia. L’anno scorso funzionava. Quest’anno, passano: tentano di passare. Ci provano ancora. Sempre mettendo in conto il prezzo più alto. All’alba di ieri, una piccola barca di legno partita dalla città turca di Ayvalic è affondata davanti all’isola greca di Lesbo. Sette migranti sono morti affogati, tre erano bambini.
Quelli «nuovi»
I nuovi profughi del 2018 sono sempre i siriani, ma ancora di più arrivano da Pakistan, Afghanistan, Bangladesh, Iraq e Iran. Secondo fonti della polizia croata, che sta mandando rinforzi lungo tutti i suoi confini, presto potrebbero essere in 60 mila a tentare di raggiungere l’Europa da qui. Ai nuovi si sommano quelli rimasti intrappolati da anni nei vecchi percorsi diventati impraticabili. Il campo base per provarci ancora è questo.
Tagliare le reti
«Mi chiamo Esid Basra, ho 19 anni, vengo dalla città di Gujranwala, Pakistan, Punjab. Ho attraversato il confine turco all’altezza del fiume Evros 19 giorni fa, sono arrivato a Salonicco in Grecia. Da lì in pullman ho raggiunto il confine con la Macedonia. Lo abbiamo passato di notte, a piedi. Eravamo in cinque. Poi in treno siamo arrivati a Skopje, la capitale. Da lì, abbiamo proseguito fino al confine serbo. Un taxi ci ha scaricato davanti alla rete. L’abbiamo tagliata e ci siamo infilati nel buco. I serbi ci hanno preso e rinchiuso due giorni in un campo a Obrenovac, nel nord. Poi, insieme a molti altri, in pullman ci hanno accompagnato al confine con la Bosnia. E ci hanno fatto segno di andare. Ecco come sono arrivato a Sarajevo. Sono contento di essere qui perché sono musulmani come noi. E ci trattano bene». Al suo fianco, un ragazzo grosso con la faccia da bambino, ascolta ogni parola e scuote la testa con rabbia e tristezza. Anche lui dorme in una tenda nel parco.
«Questa non è Europa»
«Mi chiamo Noor Hassan, vengo dal Pakistan. Sono 18 mesi, ormai, che cerco di andare avanti senza riuscirci. Per dieci volte mi hanno fermato in Ungheria. Ho tentato quattro volte anche dalla Croazia. L’ultima, ho pagato 2500 euro un trafficante. La sua professionalità consisteva nel saper aprire e chiudere molto in fretta e molto bene i portelloni dei camion. Ci siamo nascosti sotto centinaia di scatole di scarpe. L’autista non si è accorto di niente. Ma i poliziotti croati ci hanno scoperto proprio sul confine. I più cattivi, però, sono i poliziotti macedoni. Una volta, uno di loro mi ha puntato la pistola alla testa e ha detto: “Vattene via! Qui non ti vogliamo. Questa non è Europa. Posso ucciderti quando mi pare».
Tappa obbligata
Sarajevo era sempre rimasta fuori dalla rotta. Pochissimi passaggi. Adesso è la tappa obbligata per chi cerca di proseguire verso Croazia, Slovenia, Italia, Austria, Germania e oltre. Alcuni sono arrivati da un viaggio estenuante attraverso l’Albania e le montagne del Montenegro. Senis Zvizdić, primo ministro della Bosnia, ha dichiarato: «Vogliamo mantenere un atteggiamento umano nei confronti dei migranti e continueremo ad agire in conformità con le nostre leggi». Tutto intorno è una guerra per scaricarli altrove.
La signora Mevlida Dzaferagic, invece, tiene in mano una banconota da 20 marchi bosniaci e cammina fra le tende. Sta cercando una ragazza siriana incinta al settimo mese, partita con il marito e altri due figli dalla città di Deir el-Zor. «Sono stata profuga anche io», continua a ripetere la signora Dzaferagic. «Conosco quello che sta passando. Voglio aiutarla. Non posso vedere queste cose». Ma la ragazza non c’è perché è stata portata in ospedale. Adesso stanno montando la prima tettoia nel parco, mentre inizia la distribuzione del pane.
Arriva la giornalista Aldijana Hadzic dell’agenzia Anadolu: «Abito qui da molti anni, non erano mai arrivati così tanti migranti». Arrivano tassisti, più o meno ufficiali: 150 euro per il confine sud con la Croazia. Piove, poi spunta il sole. Così. In continuazione. Alle cinque di pomeriggio scoppia un litigio nell’accampamento, un ragazzino scappa di corsa sul ponte della Miljacka e incrocia i turisti davanti alla Biblioteca Nazionale di Bosnia e Erzegovina. Dopo l’assedio, dopo le fiamme, è stata completamente restaurata. Nessuna città insegna a sopravvivere più di Sarajevo.