La Stampa, 16 maggio 2018
Tutti i sistemi per non votare in agosto
Di Maio e Salvini non possono permettersi di fallire perché in quel caso, per rispetto delle leggi e della Costituzione, potrebbe verificarsi una circostanza inconcepibile, politicamente folle: andare alle urne domenica 5 agosto. Che significherebbe di fatto (sempre in ossequio alla legalità) negare il diritto di voto a milioni di elettori in ferie. Anzi peggio, falsare la volontà democratica perché scatterebbe un astensionismo diseguale per fasce di età e per territorio. Eppure quella data assurda di agosto sarebbe la prima utile per votare, qualora domenica ai gazebo (o magari prima) Cinque Stelle e Lega sancissero l’addio. In caso di rottura, già sappiamo che il Capo dello Stato metterebbe in campo il «suo» governo composto da personalità neutrali, con l’obiettivo di evitare che qualcuno possa approfittare di Palazzo Chigi per farsi una campagna elettorale faziosa. Questo governo elettorale, destinato esclusivamente a riportarci verso le urne, verrebbe bocciato dal Parlamento. Dopodiché, se fossimo in tempi normali, Sergio Mattarella non potrebbe fare altro che sciogliere le Camere. È qui che si porrebbe il problema: alla luce delle norme in vigore sul voto dei connazionali all’estero, dovrebbero intercorrere almeno 60 giorni tra decreto di scioglimento e data delle elezioni. Calendario alla mano, arriveremmo ad agosto. E possiamo già immaginarci che cosa succederebbe: un coro unanime dei partiti per spostare la resa dei conti a dopo l’estate, in modo da rivotare verso fine settembre o ai primi di ottobre. Sarebbe la soluzione di gran lunga più ragionevole. Ma richiederebbe un minimo di buona volontà collettiva.
L’Italia nel limbo
All’articolo 61, infatti, la Costituzione dice chiaro che si deve votare entro 70 giorni dal decreto di scioglimento. Qualora i partiti volessero tornare alle urne il 30 settembre, Mattarella non potrebbe dunque firmare quel decreto prima del 21 luglio. Peccato che, in caso di fallimento del tentativo grillo-leghista, la legislatura sarebbe già morta da un bel pezzo, tra una decina di giorni. Per cui l’Italia verrebbe a trovarsi nel limbo di un Parlamento virtualmente defunto a fine maggio, che però potrebbe venire seppellito soltanto due mesi più tardi. E qui sorge la prima domanda: il Presidente potrebbe rinviare così a lungo il decreto di scioglimento, sia pure motivando il ritardo con l’impossibilità pratica di votare ad agosto? Come al solito, i pareri dei giuristi divergono. Qualcuno sostiene che una certa discrezionalità in questo caso così particolare a Mattarella sarebbe consentita; altri che non se ne parla nemmeno, l’inquilino del Colle dovrebbe sciogliere subito le Camere, una volta certificato il decesso della legislatura. A meno che, si capisce, qualcosa non intervenga per frenare la mano del Presidente. Già, ma che cosa?
La via del buon senso
Mattarella è prof di Diritto parlamentare, nessuno meglio di lui può sapere se, per esempio, una mozione parlamentare sottoscritta da tutti i gruppi potrebbe indurlo a ritardare lo scioglimento delle Camere. Anche qui, i pareri dei costituzionalisti sono contraddittori ma, è opinione di molti, una mozione unanime sarebbe comunque meglio di niente. In alternativa, i partiti potrebbero concedere al governo elettorale una fiducia «tecnica», finalizzata solo ed esclusivamente a superare l’estate. Basterebbe ad esempio che un gruppo votasse la fiducia per puro senso di responsabilità, e tutti gli altri si astenessero o uscissero dall’Aula al momento delle votazioni, con le scuse più disparate. Salvo tornare in aula a metà luglio per far cadere il governo e votare in autunno. Servirebbe un pizzico fantasia, che ai politici non manca, unita a un po’ di buon senso.