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 2018  maggio 16 Mercoledì calendario

Vita di Roberto Mancini

Dal nostro inviato JESI Asaper leggere, era tutto scritto in quei cinquanta passi. Rione Prato, sotto le mura del borgo antico. Pini, lecci, cipressi, esuli dalla campagna verde brillante di là fuori, si intrufolano ancora tra le palazzine. Come la casa in cui è nato, al civico 1 di via XXIV maggio, quando l’Italia chiamò. La scuola elementare intitolata a Giuseppe Mazzini, che l’Italia la fece. Il marciapiede verso la chiesa di San Sebastiano, dove regnava don Roberto Vigo in tonaca e scarpe da calcio, di fianco c’era e c’è il campo verde, di un’erba che si spelacchia d’inverno e in primavera torna rigogliosa. Ci gioca la squadra dei suoi inizi, l’Aurora, come l’aurora che è la malinconia perfetta del giorno che nasce e somiglia al sorriso velato del Mancio adulto, che qui era felice. Fosse il Citizen Kane di Orson Welles, Roberto porterebbe con sé una sfera di vetro con dentro, in miniatura, questo rettangolo di case che era il suo mondo, a cui torna sempre, perché quello vorremmo tornare a essere, quei bambini e ciò che provavamo, l’emozione per il regalo del primo pallone, il senso di leggerezza e di attesa infinita e sgomenta, il poter gioire con niente e di niente, e pure se si diventa dei grand’uomini, o dei ct, di quello e di null’altro si ha nostalgia. Viveva in simbiosi con la palla. Da casa al campo non camminava, palleggiava. Se poi non si poteva giocare sull’erba, ore al battimuro, da solo, destro, sinistro, tacco. E la messa da don Vigo, che il giorno della prima comunione gli permise di sfilarsi il saio da cerimonia per giocare una partita che imponeva la sua presenza: portò la squadra da 0-2 a 2-2, si rimise il saio e andò a prendersi l’ostia consacrata, magari con la fronte madida. Nel retro ecco la sala parrocchiale, col focolare, il bancone del bar e i gelati e il calciobalilla, a un tavolo ci sono quattro uomini, alzano gli occhi dal placido tressette e sul muro c’è Roberto con la maglia dell’under 21. Il calcio, la famiglia, Dio e l’Italia, il Mancio è questo, lo è stato per i 13 anni che ha vissuto qui, prima di andare al Bologna per 700mila lire nel 1978, e quello è rimasto. Annamaria, bidella nella scuola Mazzini per 30 anni: «Era bravo e buono, educato, legatissimo alla famiglia, fissato con la palla. Gli dicevo “Roberto come stai oggi?” e lui: “Benissimo, ho giocato a pallone tre ore». Papà Aldo, da ragazzo emigrante in Germania, faceva il falegname, la mamma Marianna era infermiera, così spesso Roberto e la sorella Stefania stavano con Nannina che abitava lì dietro, per loro è stata una seconda madre, Roberto non ha dimenticato e quando torna qui non manca un salto al cimitero per salutare Nannina, e pure don Vigo. Perché torna spesso, rivede amici d’infanzia e di vita. Massimo, Bruno, Francesco che fa l’ottico. Passeggiano nella città antica, che per l’Unesco è “esemplare”, si fanno un paio di vasche sul cardo e sul decumano del borgo che si picca di una fondazione leggendaria 15 anni prima di quella di Roma e in cui nacque l’imperatore Federico II. Roberto prende il gelato al caffè Imperiale, o mangia al ristorante a sinistra del teatro Pergolesi, pesce, verdure, cose leggere. E gli amici dei giri in bicicletta, Marino, Gino, l’altro Massimo, via di pedivelle su e giù per le colline o in picchiata su Senigallia, fino allo scorso anno si univa anche il povero Michele Scarponi, col Mancio si erano proprio conosciuti in bici. Dorme nella villa di fine ’800 che ha regalato ai genitori, si dedica alla sua scuola calcio, bel campo in sintetico. Papà Aldo scoppia di felicità, anche in coda al supermercato: «Roberto ha l’Italia nel cuore, era in nazionale già a 14 anni, è stata una scelta giusta. È esperto, ci teneva moltissimo. Farà bene? Speriamo». In città l’entusiasmo è assai controllato come da natura del luogo, si parla di allestire uno schermo dentro il Pergolesi per l’esordio da ct. C’è una strana accettazione degli incredibili destini di Jesi, la città con più medaglie olimpiche al mondo (23) grazie alla scherma, in effetti è facile che ti attraversino la strada Trillini o Vezzali mentre vanno a fare la spesa, e il tintinnare degli ori non lo sente nessuno. Sarà la posizione tra mare e collina, ma nel borgo sono nati pure Luca Marchegiani e i Bertarelli nel calcio, il maratoneta Caimmi, altri ancora. È il cruccio dell’assessore allo sport Ugo Coltorti, ex numero 10 pure lui, ma dell’Ancona, con un ruolo che lo vede perennemente in lotta per i finanziamenti allo sport, ora porterà un Europeo di scherma integrata a settembre: «A noi sembra tutto normale ma di normale non c’è proprio niente, non esiste una città così piccola e con tante glorie sportive. Roberto? Fin da bambino in campo emanava luce». Poi si sa come sono i piccoli centri, e pure quelli grandi: qualcuno, della gloria locale, dice sempre che «non ha fatto abbastanza per la città», o che deve tornare più spesso a prendersene cura. Ma gli amici ricordano: «Per allenare l’Italia ha rinunciato a 13 milioni in Russia: quanti l’avrebbero fatto?». Lui, ad esempio, ma era più facile: è nato in via XXIV maggio, tra Giuseppe Mazzini, una chiesa e un campo di pallone. E non se li toglierà mai dall’anima.