la Repubblica, 16 maggio 2018
Mancini quando era giocatore
Parigi, corridoi dello stadio Parco dei Principi, 6 maggio ’98, sera tardi. La Lazio di Cragnotti ne ha appena presi tre dall’Inter di Ronaldo il Fenomeno nella finale di Coppa Uefa, un uomo dello staff di Eriksson è appoggiato al muro con l’aria devastata, quasi in lacrime. Mancini lo fulmina con lo sguardo, gli rifila una pacca rabbiosa sulle spalle, dice: «Non c’è motivo di deprimersi, dalla sconfitta di stasera nascerà un ciclo meraviglioso, con questa squadra dall’anno prossimo vinceremo tutto». L’interlocutore, colpito, commentò la profezia con espressione scettica, e invece andò proprio così. Non a caso, quella è rimasta nella storia come la Lazio di Mancini, più di ogni altro. Aveva visto nel futuro con l’intuito speciale del fuoriclasse. Giocava perfino da regista nel 4-4-2, accanto al mastino Almeyda che recuperava mille palloni e li consegnava a lui, il leader. Non solo in campo, ovviamente. Quando nel ’99 Cragnotti gli comunicò che aveva venduto Vieri all’Inter per 90 miliardi, con Paulo Sousa nel pacchetto, Mancini si infuriò: «Ma quale Paulo Sousa, presidente, si faccia dare Simeone e vinciamo lo scudetto». Umilmente, Cragnotti il giorno dopo chiamò Moratti, costretto suo malgrado a cambiare l’operazione. E il Cholo, si sa, fu decisivo per lo scudetto dei biancocelesti, mentre Vieri non riuscì a regalare il titolo all’Inter. Nella stessa estate Mancini – con l’amico dell’epoca Mihajlovic convinse Cragnotti a comprare Veron, pure lui determinante in quella stagione. Come Nesta, leader della difesa: il destino si è divertito a indicargli una svolta – è diventato tecnico del Perugia dopo anni negli Usa – nelle stesse ore in cui il vecchio compagno firmava il contratto da ct. Avrà sorriso il comune amico Favalli, che una volta all’intervallo di una partita il Mancini calciatore quasi aggredì negli spogliatoi: colpa di una disposizione tattica non eseguita. Usò il suo carisma, ancora da giocatore, per rimproverare con un monologo feroce in sala stampa l’ambiente laziale, disfattista fino all’autolesionismo, con una sindrome da accerchiamento che tanto irritava sia lui che il suo maestro Eriksson. Ne sa qualcosa Simone Inzaghi, di queste sfuriate del Mancio: faceva il furbo in allenamento, tagliava gli angoli del campo durante la corsa di riscaldamento e le urla – nel frattempo Mancini era diventato anche ufficialmente allenatore – scuotevano gli alberi di Formello. Che poi Inzaghi lo aveva portato lui alla Lazio, nella breve parentesi da dirigente dopo l’addio al calcio, il 14 maggio 2000, il giorno del suo secondo scudetto. Nella stessa data, 18 anni più tardi, ha coronato l’altro sogno, quello azzurro.