la Repubblica, 16 maggio 2018
L’amaca
In politica si può perdonare quasi tutto perché la politica è difficile, scombina i piani, corrompe le certezze. Ma “quasi tutto” non vuol dire tutto. Quel “quasi” sta a indicare che un limite di decenza esiste ovunque, perfino in quel pittoresco bordello. Nel caso dei cinquestelle si può sorvolare su molte cose (si sa, l’inesperienza, l’impaccio degli esordi, il tono di voce parecchi decibel più del necessario, la spiritosa idea che una trentina di clic siano “il web che si esprime”, eccetera). Ma non su una: lo streaming.
La faccenda dello streaming vale, per quei valorosi ragazzi, una pernacchia lunga almeno una legislatura. Ci avevano talmente fracassato le scatole, con la storia che il popolo deve sapere, che tutto deve essere in rete, che niente deve rimanere nell’ombra, che ci avevamo perfino creduto.
Sotto sotto, lo confessiamo, ci era sembrata una trovatina demagogica, una buffonata da iperconnessi, una meschinità da guardoni, insomma, per dirla alla vecchia maniera, una gran cazzata. Ma alla fine, un po’ per sfinimento un po’ per spirito cavalleresco, avevano ceduto: va beh, lo streaming in fondo non è poi così grave, invece di Netflix o della Coppa Uefa uno si mette lì e segue i lavori della Commissione parlamentare sul fisco. Difatti è da un paio di settimane almeno che cerco di sintonizzarmi, in streaming, sulle trattative Lega-M5S. Beh, non ci crederete: zero su zero.
Nemmeno quei quattro secondi necessari a Beppe Grillo per dirci: «Avete creduto allo streaming?
Ma siete così scemi?».