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 2018  maggio 15 Martedì calendario

Il non-governo di Salvini e Di Maio

Senza voler essere per forza pessimisti, nel giorno in cui pareva che fosse pronto a nascere, il governo giallo-verde non è nato. Dopo giorni e giorni di trattative a Roma, e dopo un rush finale tra il ventitreesimo piano del Pirellone e lo studio di un commercialista a Milano, domenica sera Luigi Di Maio aveva telefonato al Quirinale per informare il presidente che lui e Salvini erano pronti a riferire al Presidente della Repubblica. L’intesa sul programma – facevano sapere i due futuri alleati – si considerava raggiunta all’ottanta per cento, non così quella sul candidato premier equidistante dai due partiti, che avrebbe dovuto suggellare l’ultimo passaggio e consentire al Capo dello Stato di valutare la proposta ed eventualmente procedere all’incarico.
Nulla di tutto questo è accaduto ieri pomeriggio al Quirinale, dove Di Maio e Salvini erano stati convocati separatamente per un nuovo giro di consultazioni, concluso con due dichiarazioni molto divergenti. Il leader pentastellato se n’è uscito chiedendo altro tempo per la trattativa, non essendo stata trovata un’intesa idonea, secondo il Movimento, alla costruzione del cosiddetto «governo del cambiamento». Quello leghista, visibilmente sudato e innervosito, ha detto chiaro e tondo che non c’era accordo su niente: né sulla cancellazione della Fornero, né sulla sicurezza, né sull’immigrazione, e non parliamo delle opere pubbliche, a cominciare dalla Tav e dalle strade pedemontane così care al Carroccio delle valli del Nord.
L’unico punto coincidente riguardava il nome del possibile premier, di cui Salvini e Di Maio negavano di aver parlato fino a notte fonda. Ma a dimostrazione che si trattava di un’ennesima bugia, quasi contemporaneamente il professor Giulio Sapelli, economista e accademico di fama, stimato anche da precedenti governi e nominato in consigli d’amministrazione di enti di Stato come l’Eni, dichiarava di essere stato convocato da Salvini e Di Maio per accertare la sua disponibilità a guidare il governo. Sapelli, uomo di una certa esperienza, s’era sentito un po’ preso dai turchi, limitandosi a rispondere che avrebbe potuto accettare, solo se messo in condizione di partecipare alla stesura del programma e alla scelta dei ministri, insomma non a scatola chiusa. Ma già questo bastava a motivare un veto dei 5 stelle sul suo nome. Infine, sempre all’uscita dagli incontri con Mattarella, i due leader annunciavano di voler consultare i rispettivi elettorati, M5S tramite la piattaforma Rousseau, e Lega con i gazebi in piazza.
Ora, tutto è possibile, perfino che oggi o domani torni a risplendere il sol dell’avvenire sull’esecutivo giallo-verde. Ma è abbastanza chiaro che per questa strada un governo non nasce neppure per miracolo. Non è solo un problema di liturgia, alla quale a malincuore Mattarella s’è adattato a derogare, ma non certo a rinunciare. È che è andata come tutte le volte (le unioni civili, il sistema elettorale tedesco) che un partito più o meno tradizionale – in passato Pd e Forza Italia, oggi la Lega – si mette a trattare con i 5 stelle, si lascia portare in giro con l’illusione di un accordo, e poi cade nel trappolone, sempre lo stesso, ordito da un Movimento che non prevede vincoli o alleanze semplicemente perché non fanno parte del suo Dna. Così il leader leghista s’è illuso per oltre due mesi, ha perfino creduto di aver costruito un rapporto personale con il suo interlocutore – insieme, il «nuovo» contro il «vecchio», una storia già sentita -, salvo poi accorgersi che il governo, o si fa con Di Maio presidente del Consiglio, o non si fa. E a questo punto è più probabile che non si faccia.