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 2018  maggio 15 Martedì calendario

Salgari romanziere unico che copiava dai francesi

Copiava dai francesi, ma poi finiva per realizzare romanzi unici. Non viaggiava però amava importare vocaboli esotici nelle sue pagine Ecco chi era il padre di Sandokan. Di cui sono usciti racconti finora sconosciuti Quando ero giovane – tra il 1937 e il 1942 – leggevo moltissimi libri di Emilio Salgari. Soltanto pochi amici leggevano Verne, che veniva trovato inutilmente complicato e noioso. Passavo dalle storie del Corsaro Nero a quelle di Sandokan: di Iolanda, Yanez, Tremal-naik e Suyodhana; alternando spagnoli, olandesi, indiani, malesi, portoghesi (anzi il portoghese Yanez, con la sua immancabile sigaretta); e mi salvavo da un libro di Salgari gettandomi in un altro Salgari. Oggi, i miei nipoti non lo leggono più: credo che non sappiano nemmeno chi sia; e sostituiscono le cose lette con quelle vedute. Credo che perdano molto. Vorrei conoscere una biografia di Salgari, che credo non esista: sebbene l’eccellente edizione Mondadori, a cura di Mario Spagnol, abbia rivelato innumerevoli notizie. Salgari nacque a Verona il 21 agosto 1862, al tempo di Pascoli e D’Annunzio, figlio di un negoziante di stoffe. A diciassette anni, preso dalla passione per il mare, si trasferì a Venezia, allievo dell’Istituto navale: voleva diventare capitano di lungo corso; ma fece un solo viaggio, come turista e non marinaio, da Venezia a Brindisi. Si fece chiamare CAPITANO: entrò come cronista al giornale l‘“Arena”. Cominciò a scrivere racconti: narrò viaggi straordinari, che aveva compiuto solo nella fantasia; e nel 1883 pubblicò il primo romanzo, Tay- See. Si stabilì vicino a Torino: collaborando prima con l’editore Speirani, poi con Donath, Biondo e Bemporad. Amava mascherarsi e nascondersi dietro altri nomi: perché il nome, non la cosa, era la sua ispirazione: Emiliano, Guido Altieri, anzi il capitano Guido Altieri, Giulio Retani, infine Emilio Salgari. Proclamava di essere l’unico emulo italiano di Jules Verne. Quando abitava a Torino, nel povero appartamento di borgo Vanchiglia e nella più tarda villetta sulla collina, inseguì il sogno di una vita bohème. Dai ricordi del figlio Omar (che, anche lui, scrisse romanzi d’avventura) ci viene incontro un personaggio di eterno goliardo, chiassoso, ridanciano, esuberante, che costringeva persino le domestiche a tirare di scherma. Vagabondava per le osterie sulla collina, bevendo e giocando a tressette. Era un ingenuo mitomane. Non poteva dormire senza versare profumi sulle lenzuola: che «così sapevano, ci assicura il figlio, di foreste e di tropici e di alghe marine e di venti del sud». Prima di rappresentare battaglie, tempeste ed uragani, si abbandonava a furiose scorribande sul pianoforte. Poi, seduto al vecchio tavolo sconquassato, intingeva la penna in un inchiostro di bacche, che aveva fabbricato con le sue mani. Oscure frustrazioni, tetri, inconsci desideri di vendetta gli rodevano il cuore: una catena di presentimenti e credenze metapsichiche gli confondevano il cervello; l’alcol e il fumo indebolivano ogni giorno il suo organismo, portandolo lentamente verso la fine. Presto Salgari inventò i suoi veri luoghi: la capanna di Sandokan, a picco sul mare di Mompracem e la cabina della Folgore, dove il Corsaro Nero ostentava le sue lussuose eleganze sabaude, i suoi pallori alabastrini e i suoi pizzi finissimi. In ogni libro si divise in due personaggi: da un lato Sandokan, dall’altro James Brocke, rajah di Sarawak (di cui racconta anche Conrad); da un lato il Corsaro Nero e dall’altro Wan Guld, il governatore di Maracaibo. Ma le due forze rivali non si combattevano sotto le potenze opposte del Bene e del Male: erano energie della stessa specie; egualmente geniali, tenebrose ed avide di potere, che dovevano perseguitarsi fino alla morte, perché il mondo era troppo piccolo per contenerle entrambe. A Torino il lavoro di Salgari fu ancora più frenetico. Diventò quasi cieco: la moglie impazzì; finché il 25 luglio 1911, a meno di cinquant’anni, si tolse la vita, pubblicando questa lettera ai suoi editori: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria, od anche più, chiedo solo che, in compenso dei guadagni che vi ho dato, pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna». Negli ultimi ventotto anni pubblicò ottantacinque romanzi e un centinaio di racconti. Molti li aveva copiati, specialmente da scrittori francesi: ma copiando, intrecciando, raffazzonando finiva sempre per scrivere il romanzo di un solo autore: il Capitano Emilio Salgari. Vedeva ciò che le sue fonti non vedevano: portava tutto all’estremo; inseguiva il segreto, il mistero, il romanzesco, l’infinito, come l’ultimo erede di Lord Byron. È uscito dall’editore Bompiani Lo stagno dei caimani che raccoglie molti racconti sconosciuti e perduti: Un principe al Polo Nord, Il misterioso Tibet, La rupe maledetta, La torre del silenzio, Un tenebroso silenzio, La mano rossa. Alcuni discendono da Poe o probabilmente da imitatori di Poe: sono molto meno belli del Corsaro Nero e dei Pirati della Malesia. Ci sono pellirossa: donne bellissime: amori: luoghi desolati: una geografia più esatta del solito: greci e turchi; ma tutto avviene oggi, non nel sedicesimo secolo come nel Corsaro Nero; e talora vengono ricordate vicende quasi contemporanee, come la guerra franco-prussiana del 1870, a due passi da Torino e da Genova. Grazie a questo “forzato della penna” giungono sino a noi le parole che egli aveva saccheggiato nei dizionari e nei racconti di viaggio: il prahos, i babirussa, i kriss, i dayachi, i ramsinga, i maharatti, le pomponasse, gli yatagan, sebbene sovente i lettori non sappiano di cosa si tratti. Salgari amava le parole non le cose; e bastava che nominasse un oggetto raro, che forse i suoi lettori ignoravano, perché tutto diventasse “di gran prezzo”, di “inestimabile pregio”, prodigioso, terribile, orribile, irresistibile, fondamentale, meraviglioso.