Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  maggio 15 Martedì calendario

La corsa del Pil cinese sta per finire?

Dal nostro corrispondente pechino La spettacolare corsa della Cina sta per finire? La crescita del Dragone, per 40 anni fuoriserie in un campionato mondiale di utilitarie, sta esaurendo la propria spinta? C’è chi dice sì: la previsione, o provocazione, è in una ricerca degli analisti londinesi di Capital Economics. Avvertenza: sono i più pessimisti in circolazione. Molti concordano che Pechino rallenterà, ma vedono il suo Pil stabilizzarsi attorno a un comunque brillante 5 %. Per i ricercatori inglesi la frenata sarà ben più brusca, addirittura al 2% entro il 2030, poco più di un’Italia qualsiasi. E ben prima di aver raggiunto i livelli americani di benessere per cui Xi Jinping si è preso tutto il tempo al potere necessario. Va detto che Capital Economics, già pro Brexit, ha fama di bastian contrario. Eppure l’analisi dei capi economisti di Asia e Cina ha argomenti che meritano attenzione. Si basa su un paragone tra la traiettoria di sviluppo del Dragone e quella dei pochi Paesi, tra cui Corea del Sud e Giappone, in grado di arrampicarsi dall’affollata classe degli “emergenti” al ristretto club del “reddito alto”, sopra il 22 % di quello statunitense. Oggi la Cina è al 14% (8 mila dollari contro 57 mila), come il Giappone del ’59 e la Corea del ’79. Ma rispetto a loro sembra già al limite sotto tre aspetti. Il primo sono gli investimenti, pubblici e privati, a livelli altissimi: difficile spremere altra crescita da infrastrutture o edilizia. Il secondo è l’export, dove è improbabile possa mangiarsi una fetta ancora più grande della torta globale, specie se dall’altra parte continuerà ad esserci Trump. Infine la demografia, con la politica del figlio unico che presenta il conto. Da quest’anno i suoi occupati dovrebbero iniziare a scendere. Allo stesso livello della scalata, Corea e Giappone avevano ancora molte leve da usare, lei no. Ne resta una, la produttività del lavoro. Xi ne è consapevole, come dimostrano i suoi piani per spostare la Cina verso manifattura a maggiore valore aggiunto. Eppure, secondo Capital Economics, proprio l’onnipresenza dello Stato gioca a sfavore del suo sogno. Più ci si avvicina a tecnologie di frontiera, scrivono, più un’economia pianificata dall’alto fatica a indirizzare gli investimenti dove sono più efficaci. Finora, tutti i Paesi che hanno fatto l’ultimo scatto erano economie molto liberalizzate, e da questo punto di vista Pechino non sta facendo passi avanti. Anzi. Ci vorrà almeno un’altra eccezione alla regola, per portare il capitalismo di Stato cinese a livelli di benessere americani.