la Repubblica, 15 maggio 2018
Trump salva Zte
Dal nostro corrispondente new york Donald Trump sorprende di nuovo, stavolta vestendo i panni del salvatore per un colosso dell’industria cinese. Cedendo alla richiesta personale del suo omologo Xi Jinping, il presidente americano “grazia” all’improvviso l’azienda Zte. Quest’ultima stava fallendo proprio per le sanzioni inflitte dall’Amministrazione Trump. Troppo efficaci, al punto da mettere a rischio la sopravvivenza dell’azienda e con essa decine di migliaia di posti di lavoro. Il dietrofront arriva via Twitter: «Sto lavorando con Xi per rimettere in sesto la Zte, in fretta. Troppi posti di lavoro perduti in Cina». Curiosa preoccupazione per il leader di America First, che fin qui sembrava rispondere solo alla sua constituency domestica, in particolare la classe operaia della Rust Belt. Mentre in questo caso sfoggia una compassione rara, che non ha dimostrato quando ha colpito interessi di paesi alleati (dall’Unione europea a Giappone e Corea del Sud). Tanto da eccitare ogni sorta di dietrologie: tutti i media americani si stanno chiedendo se la Zte s’inserisca in una più vasta e complessa partita di do- ut- des con il presidente cinese: dalle guerre dei dazi alla “pace atomica” preannunciata per il vertice del 12 giugno con Kim Jong Un. La Zte, acronimo di Zhongxing Telecommunications Equipment, era nel mirino di Washington da tempo. È uno dei due giganti cinesi nel settore dell’hardware per telecom ( l’altro è Huawei), le cui incursioni nell’hi-tech Usa suscitano diffidenza e inquietudine. Zte ha circa 75 mila dipendenti, è una multinazionale che opera in 160 paesi, fabbrica smartphone e infrastrutture per la telefonia. I suoi smartphone competono nella fascia di basso prezzo e sono particolarmente popolari nei paesi emergenti. Ma come molti prodotti di questo settore, incorporano anche tanta tecnologia made in Usa: l’America rimane uno dei massimi produttori di microchip, di modem, oltre che di sistemi operativi targati Microsoft e Android ( Google). Qui si è creato l’ultimo “casus belli”: l’azienda cinese ha venduto smartphone alla Corea del Nord, così facendo ha trasferito tecnologia made in Usa ad un paese sotto embargo. La violazione è grave, perciò il Dipartimento del Commercio Usa ha preso la misura prevista per legge, vietando alle aziende americane ogni rapporto economico con la Zte. Colpo durissimo, la Zte si è ritrovata nell’impossibilità di produrre smartphone e altri apparecchi, una volta privata dei componenti made in Usa. L’azienda cinese si è avvitata rapidamente in una spirale di crisi, con chiusure di stabilimenti e l’annuncio di licenziamenti di massa. Un botto pesante per un’azienda che fino a poco tempo fa era uno dei gioielli dell’industria cinese, e sulla quale Xi punta nell’ambito del suo “piano 2025”, destinato alla conquista di una leadership nelle tecnologie avanzate. Di qui la decisione di Xi di far leva sul suo buon rapporto personale con Trump. E la perorazione ha funzionato. L’improvvisa arrendevolezza del presidente americano suscita però molte perplessità. Anzitutto, la Zte si è costruita il proprio disastro da sola: non solo violando le sanzioni sulla Corea del Norrd, ma poi mentendo ripetutamente. Dopo i primi avvisi di Washington la Zte avrebbe dovuto prendere delle misure al proprio interno, per esempio contro i manager responsabili del commercio illegale verso Pyongyang. Al contrario quei manager sono stati premiati. Inoltre Trump sembra dimenticare che i sospetti americani sulla Zte risalgono a molto prima e non riguardano solo la Corea del Nord. In passato la Casa Bianca e il Congresso bloccarono delle acquisizioni della Zte in America, per la quasi- certezza che quegli investimenti sarebbero stati finalizzati allo spionaggio industriale. Donde il sospetto che il favore di Trump a Xi possa preludere a contropartite su altri tavoli.