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 2018  maggio 15 Martedì calendario

Che cos’è Gerusalemme

Sono 4.000 anni che ci si scanna per Gerusalemme e a Gerusalemme. Ma che a combattersi siano ebrei e arabi è cosa relativamente recente: dal secolo scorso. Basta dare un’occhiata alla tabella, su più pagine, che apre il recente Gerusalemme assediata dell’antichista della George Washington University Eric H. Cline e macina millenni di conflitti dall’Antica Canaan ai giorni nostri. L’unica costante è che ci si scanna sui simboli. Anche la decisione di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme è un fatto simbolico. Non cambia lo status della città, interamente sotto controllo israeliano dal 1967. Cambia la politica perseguita da tutti i predecessori di Trump alla Casa Bianca. A che scopo? Azzerare tutto per riprendere un negoziato? O schierarsi con una parte degli arabi per fare la guerra all’Iran? L’obiettivo perseguito da tutti i presidenti americani era arrivare a un accordo tra Israele e Palestinesi. Rabin e Arafat si erano stretti la mano dopo gli accordi di Oslo nel 1993. Rabin fu ucciso per questo. Nel 2000 Clinton aveva poi riconvocato le parti a Camp David. Non solo si sperava ma sembrava davvero che si fosse lì lì per riuscirci. E invece no. Apparentemente avevano rotto su Gerusalemme. Entrambi avevano dichiarato Gerusalemme capitale: gli Israeliani nel 1948, i Palestinesi nel 1988. Nessuno dei due volle fare un minimo di marcia indietro. «Non posso tradire il mio popolo. Mi ammazzerebbero. Volete partecipare al mio funerale? Non posso accettare la sovranità israeliana sull’Haram el Sharif», disse a Clinton Arafat. «Nessun premier israeliano accorderà ai Palestinesi mai la sovranità sul Monte del Tempio. È stata la culla dell’identità del popolo ebraico per 3.000 anni», gli aveva fatto eco il leader israeliano Ehud Barak. Neanche i nomi riescono a essere neutri. Su Repubblica qualche anno fa mi capitò di riferirmi alla parte in cui si verificavano gli scontri con un termine che mi pareva fattuale: «Spianata delle Moschee». Fui tacciato di «traditore del mio popolo». I simboli sono pericolosi. Bloccano le soluzioni negoziate. Anche la memoria può essere strumento di odio. «Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia», recitano i Salmi. Ai bambini palestinesi è insegnato sin da piccoli che il massimo dell’onore è la jihad e il martirio per la “Santa Gerusalemme” dove Maometto ascese al Paradiso di Allah. Gli uni si proclamano figli di Davide, gli altri degli Amorrei e dei Gebusei che lì abitavano da molto prima degli ebrei. Si contrappongono miti e leggende. Sono rimasti in pochi a ricordare che «nessuno ha sovranità sulla storia». Ripensando però a com’è andata negli ultimi decenni ho l’impressione che a bloccare una soluzione non siano stati solo la storia, il prevalere delle reciproche intransigenze e dei reciproci fanatismi. Forse il vero punto del contendere non è Gerusalemme, ma una questione più spinosa: la pretesa, da parte palestinese, del “diritto al ritorno” dei profughi scacciati dopo la Naqba, la catastrofe del 1948 e quelle successive. «Su Gerusalemme si potranno magari un giorno mettere d’accordo, sul ritorno mai», mi spiegò il vecchio e saggio rabbino Hertzberg, molto addentro nelle trattative tra Arafat e Barak. A distanza di oltre vent’anni mi sto sempre più convincendo che avesse ragione. Pochi sembrano accorgersi che c’è in agguato qualcosa di più micidiale della storia, e persino dei miti e della religione: la demografia, e qualcosa di connesso a essa: l’immigrazione. Benny Morris, uno degli studiosi israeliani più attenti a questo aspetto, attribuisce al fattore demografico la nascita stessa dello Stato di Israele, resa possibile dal raggiungimento di una “massa critica” di ebrei in arrivo dall’Europa dell’Olocausto. Da tempo i sionisti di un tempo, i laici, gli intellettuali profeti di tolleranza che leggiamo, intervistiamo e apprezziamo non sono più maggioranza a Gerusalemme. Come non lo sono più nell’America di Trump, e in Europa. Non è più “It’s the Economy”. È “It’s the immigration”, osserva qualcuno.