la Repubblica, 15 maggio 2018
Wim Wenders: «Grazie al Papa ora posso fare il nonno»
CANNES Ho passato due anni con papa Francesco.
E questo mi ha cambiato per sempre».
Wim Wenders a 40 anni raccontava degli angeli berlinesi, a 72 presenta a Cannes e al mondo il suo film sulle parole e il pensiero di Bergoglio, Papa Francesco – Un uomo di parola.
Wenders, in che modo quest’incontro l’ha cambiata?
«Le sue parole hanno avuto un impatto diretto sulla mia vita. Lui chiede: possiamo vivere con meno?
La risposta è sì. Sentivo che non avrei avuto il diritto di fare questo film se non avessi seguito il suo esempio. Io e mia moglie Donata abbiamo cambiato la nostra vita ed è stato un gran sollievo. Lui dice: per la salute mentale devi riposare un giorno a settimana. Mi sono accorto che non mi fermavo da anni. Che non avevo passato tanto tempo con la mia famiglia, a far giocare i miei quattro nipoti. Dice cose semplici che tutti sappiamo ma che siamo portati a dimenticare».
Com’è stato il vostro incontro?
«Ci siamo presentati nel suo ufficio in Vaticano. Avevo studiato, pensavo di sapere molto di lui, ma ero comunque nervoso. È arrivato da solo, ci ha guardato in modo franco, ha stretto le mani di tutti.
Questo ci ha tolto tanta pressione».
Cosa l’ha colpita di lui?
«Il coraggio, l’energia positiva che percepisci fisicamente quando entra nella stanza. E il senso dell’umorismo. Rideva del mio spagnolo storpiato e spesso vedi il sorriso in fondo ai suoi occhi.
La propensione a divertirsi.
Lo guardi negli occhi e vedi il vecchio ragazzino che è stato».
Le parole del papa, nel film, sono più sugli uomini che su Dio.
«Non è un teologo, prima di tutto è interessato alle persone, a comunicare con gli altri, ai loro bisogni. Con lui la Chiesa non è uno strumento del potere ma della comunità, come lo era in origine».
Non è un film solo per cattolici.
«Non volevo fare un film per chi già lo conosce. Papa Francesco vuole parlare a tutte le persone di buona volontà. Non per convertirle ma per renderle consapevoli che dobbiamo grattare la superficie e andare all’essenza dell’uguaglianza».
C’è una scena in cui sbarca negli Usa a bordo di un’utilitaria.
«Fin dall’inizio dei suoi viaggi ha scioccato tutti rifiutando la limousine. Quando è arrivato da noi per le riprese ai giardini del Vaticano è uscito da una Fiat Panda».
In questi anni con Francesco ha assistito a momenti di debolezza o sconforto?
«Ho visto in lui una speranza senza fine. Ma anche la rabbia, di ritorno dal campo profughi a Lesbo.
E quando parla di pedofilia, quando dice “Tolleranza zero”, capisci che vorrebbe fare tutto e subito, ma non può. Percepisci la sua frustrazione.
Sappiamo che ha nemici in Vaticano, c’è chi lo accusa di eresia, la cosa più grave che può succedere a un papa. Ma d’altra parte sono in moltissimi a sostenerlo, felici che abbia aperto le porte della chiesa al 21esimo secolo».
Perché il Vaticano ha scelto lei per il documentario?
«Per la mia abilità di sparire, lasciando che sia il soggetto del film a splendere. Vale per i musicisti del Buena Vista Social club, per l’arte di Pina Bausch e Sebastião Salgado. Alcuni fanno documentari di denuncia, io li faccio per condividere ciò che amo. L’unica regola che ho posto era che il film non poteva essere una produzione vaticana, dovevo farlo da solo».
Perché ha aggiunto inserti di fiction in bianco e nero su San Francesco?
«Quando fu eletto rimasi subito impressionato dalla scelta di chiamarsi Francesco. Quel nome era un grande obbligo, nessuno aveva avuto il coraggio di sceglierlo prima. L’idea di ricollegare il mio film al santo c’è stata dall’inizio.
San Francesco è un grande eroe dell’umanità, visionario e rivoluzionario. Ma non tutti lo conoscono. E nessun film su di lui mi aveva colpito, a parte quello di Rossellini. Con pochi soldi ho girato le scene, usando una macchina da presa anni Venti che sapevo avrebbe regalato un ritorno al passato. In molti, dopo la proiezione, mi hanno chiesto: “Dove ha trovato quel filmato di repertorio?”».
Qual è stato il suo rapporto con la religione?
«Ho avuto un’educazione cattolica.
Mio padre era un medico, la sua missione era, cristianamente, essere al servizio dei suoi pazienti.
Prima di fare medicina aveva pensato anche alla teologia.
È successo anche a me, fino ai sedici anni, poi sono arrivati il rock and roll, il cinema... Nel 1967 ero un studente, ovviamente socialista.
Negli anni Settanta sono tornato al mio credo ma stavolta da protestante. Oggi non importa, sono cristiano e credo nel movimento ecumenico, ho amici cattolici, vado nelle chiese cattoliche e protestanti».
Papa Francesco ha visto il film?
«Quando l’ho incontrato non aveva mai visto un mio film, né vedrà questo. Mi ha chiamato: “Mi dicono hai fatto un bel lavoro. Ne ho un grande rispetto, ma il cinema non è una cosa per me”».