Libero, 14 maggio 2018
L’italiano deformato in un anglo-dialetto
«E daje, famose un serfie!». «Negativo, zio, ci ho l’app in stand by che non mi funzia!». Di qui a vent’anni i discorsi in dialenglish, metà dialetto metà inglese, oggi prerogativa delle tribù di adolescenti, rischiano di diventare patrimonio collettivo della nazione. Sacrificando quella vecchia madre malata chiamata lingua italiana. Si tratta dell’avvento di una forma glocal di comunicazione, che attinge in parte al territorio e in parte guarda oltreconfine. Un lessico da villaggio globale che compromette quanto resta dell’idioma patrio e della nostra sovranità linguistica. La diagnosi sullo stato di salute dell’italiano non è mero catastrofismo ma trae spunto dai contributi di illustri linguisti, riunitisi ieri al Salone del Libro di Torino, in un convengo intitolato “L’italiano che sarà”, che forse più opportunamente avrebbe dovuto chiamarsi “L’italiano, se sopravvivrà”. Al momento, ci dice lo storico della lingua italiana Luca Serianni, autore di Per l’italiano di ieri e di oggi (Il Mulino, pp. 540, euro 38), «disponiamo di un vocabolario più ristretto in confronto a cent’anni fa. L’uso di parole riferite alla capacità di argomentazione, come desumere, evincere, inferire, si è molto ridotto, e la padronanza di alcuni aggettivi, ad esempio florido, diventa via via più scarsa, soprattutto tra i ragazzi». Allo stesso tempo fatica ad aumentare nel mondo il numero di parlanti in italiano. «Tra vent’anni», continua Serianni, «sarà già tanto se la lingua italiana manterrà lo spazio occupato oggi. Al contrario il cinese, una volta idioma di nicchia, aumenterà esponenzialmente, favorito dalla mobilità nel mondo degli stessi cinesi». Alla contrazione dell’utilizzo del nostro idioma, a quelli che Mariarosa Bricchi ne La lingua è un’orchestra (Il Saggiatore, euro 22) definisce «malanni» dell’italiano, contribuiscono fattori endogeni ed esterni. Da un lato, pesa la “dialettizzazione” del lessico. «Il vero problema», ammette lo storico della lingua italiana Vittorio Coletti, che ha da poco pubblicato L’italiano scomparso. Grammatica dell’italiano che non c’è più (Il Mulino, pp. 280, euro 16), «è il passaggio della lingua allo stadio di dialetto. Il gergo va bene come lingua degli affetti, da usare in casa, ma nella sfera pubblica finisce per generare incomprensioni, perfino all’interno della stessa comunità». E soprattutto il suo uso dovrebbe rimanere circoscritto a certe aree geografiche e a certi contesti comunicativi: diventa preoccupante invece il suo esondare oltre questi confini. SDOGANATO IL ROMANESCO «Penso al verbo “sbroccare”», avverte Serianni. «È una forma regionale tipica romanesca, che recentemente è stata sdoganata da un fiorentino come Renzi. Prosegue così quel ricorso a forme espressive del dialetto romano, favorito dalle emittenti tv e dal cinema. Cui si abbina una diffusione capillare del napoletano». Che oggi trova nuovi canali di proliferazione, ad esempio tramite serie tv come Gomorra. L’altra minaccia al nostro idioma consiste nella ricezione supina di alcuni termini inglesi, che potrebbero benissimo essere resi in italiano, ma di cui – ed è questo l’aspetto nuovo – ci dimentichiamo la traduzione. «Mi viene in mente la parola stand by», ci dice Coletti. «Pochi sanno che può essere tradotta come attesa. Lo stesso dicasi di default. Ormai diciamo “questa cosa va di default”, quando potremmo dire “questa cosa è già in dotazione”». Beninteso, ciò non significa condannare le espressioni tipiche dell’oralità. Al contrario, avverte il presidente onorario dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini, autore di Lezioni di italiano (Mondadori, pp. 222, euro 14), «senza parlato, la lingua muore. Abbiamo bisogno dell’uso vivo del linguaggio: guai a fare dei letterati i normatori del nostro idioma». E non solo: la lingua parlata, a differenza di quella scritta, continua a unire il Paese. «Se per l’italiano scritto», rileva Serianni, «possiamo parlare di “italiani”, visto che nella scrittura proliferano tanti tipi di linguaggio, per l’orale possiamo ancora parlare al singolare di “italiano”, condiviso dal 95% dei cittadini». E d’altronde il linguaggio parlato è quello che meno si fa influenzare dal lessico dei social, dato che, ci dice Serianni, «i giovani attuano un processo singolare: immettono nei social la lingua parlata, non il contrario». CONGIUNTIVI Né l’italiano deve troppo temere l’avvento dell’immigrazione o l’uso sballato dei congiuntivi. «Quanto alle lingue dei migranti», fa notare Serianni, «esse incidono poco perché fanno capo a realtà troppo eterogenee: il rumeno, l’arabo, l’albanese… E poi, per gli arabi come per i cinesi, il basso livello di integrazione riduce la loro osmosi con la lingua italiana». Non sempre la ghettizzazione viene per nuocere, insomma. Quanto al congiuntivo, fortunatamente non è imminente un effetto-Di Maio di massa. «La nostra ignoranza del congiuntivo è sovrastimata», ci rassicura il prof. «Magari nel linguaggio parlato diremo “se lo sapevo, non venivo”, ma nello scritto il congiuntivo non scomparirà, almeno finché continueremo a usare le subordinate». O finché i Cinque Stelle non ci imporranno la loro neo-lingua.