la Repubblica, 14 maggio 2018
Il Jihad da Raqqa in Indonesia
Da Parigi a Giava le metastasi dell’Isis sono ancora in grado di colpire e dimostrare che il califfato non è morto e continua la sua sfida all’Occidente. Il colpo di coda ha due caratteristiche: il protagonismo dei terroristi provenienti dall’Asia e dal Caucaso, e il carattere «famigliare». Gli attacchi di Al-Qaeda e dell’Isis sono stati spesso un affare di famiglia, ma di solito tra fratelli. Come Said e Cherif Kouachi, i killer di Charlie Hebdo, o Ibrahim e Salah Abdeslam, carnefici al Bataclan nel novembre del 2015, o ancora i ceceni Dzochar e Tamerlan Anzorovic Carnaev, attentatori alla maratona di Boston del 2013, e infine Salman e Hashem Abedi, i due libici del massacro a Manchester lo scorso maggio.
La partecipazione delle donne è molto più rara e anche qui sono stati i ceceni ad aprire la via, con le sorelle Amanat Nagayeva e Satsita Dzhbirkhanova che nel 2004 si sono fatte saltare in aria nella metropolitana di Mosca. L’Isis, all’inizio, non ha incoraggiato il coinvolgimento delle donne. La jihad femminile era quella del focolare, da spose dei mujaheddin. Ma nella fase finale delle battaglie di Sirte, Mosul e Raqqa, gli islamisti hanno cominciato a usare donne-kamikaze, in almeno un caso con un bambino piccolo in braccio per ingannare i militari. Pubblicazioni, sulla rivista Al-Naba e altre, hanno giustificato la jihad al femminile nei casi «estremi, quando gli uomini non sono più in grado di difendere» i territori del califfato.
Ancora non si era vista però un’intera famiglia immolarsi, come ieri a Giava: un esempio di come dalle macerie di Raqqa possano ancora nascere minacce globali. I sei kamikaze avevano soggiornato nell’ex capitale dell’Isis e il lavaggio del cervello era stato così profondo da spingere una madre a sacrificare i quattro figli. La spiegazione è nel radicamento del jihadismo indonesiano, che risale addirittura al 1942 e ha visto nel 2015 la nascita del gruppo Jemaah Anshorut Daulah (Jad), affiliato all’Isis. Da allora 500 islamisti sono andati in Siria, spesso con mogli e figli. Dopo l’arresto dei due leader Aman Abdurrahman e Abu Bakar Baasyir, il Jad è guidato da Abu Husna, che ha tenuti i rapporti con il califfato.
Come sottolinea il rapporto «Indonesia Jihadism» del Csis, l’Indonesia è fragile per l’antica penetrazione dell’ideologia jihadista e l’alto numero di giovani in condizioni di stress sociale, vicini al «punto di saturazione» che fa scattare l’adesione ai gruppi estremisti. Anche le leggi sull’immigrazione, che consentono agli indonesiani di tornare da zone di guerra senza subire controlli, facilitano il pendolarismo islamista ed espongono il Paese, per l’87% musulmano, a un rischio molto alto, compreso quello di una guerra civile con la minoranza sciita.
È uno scenario «afghano», dove i combattenti dello Stato islamico, per la metà stranieri, sono saliti a tremila, ieri hanno colpito di nuovo a Jalalabad, e stanno prendendo campo fra gli islamisti con attentati agli sciiti. L’attivismo asiatico si spiega con l’alto numero di foreign fighters originari dell’Asia e «formati» nel califfato. La scorsa settimana Mosca ha avvertito che in Siria «ci sono ancora 4 mila terroristi provenienti dalla Russia che potrebbero spostarsi in Europa», la maggior parte ceceni o di origine uzbeka. Il grosso dei combattenti è però già migrato in India, Indonesia e Malaysia, i nuovi fronti citati dal portavoce di Abu Bakr Al-Baghdadi, Abu Hasan al-Muhajir. Il califfo è invece ancora in Siria, a quanto dicono i servizi di intelligence locale. Ed è lì che bisogna tagliare la testa del serpente.