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 2018  maggio 14 Lunedì calendario

L’Isis e l’obiettivo Indonesia

Gli attacchi suicidi contro tre chiese cristiane di Surabaya sono opera di uno dei molti gruppi locali affiliati all’Isis, che, del radicamento nel Paese musulmano più popoloso al mondo, ha fatto uno dei propri obiettivi strategici. È dal 2016 che l’Indonesia, in passato tradizionale teatro d’azione di al-Qaeda, è oggetto di attacchi della formazione guidata da al Baghdadi. Del resto, centinaia di indonesiani hanno combattuto nelle fila dell’Isis in Siria e Iraq, dando vita con i loro “fratelli” della Malesia alla Katibah (unità) Nusantara Daulah Islamiyah. Impensabile che quei militanti, e i loro epigoni locali, decisi a legittimarsi come gli autentici alfieri della jihad nell’area, non cercassero di estendere al Paese delle “mille isole” la “competizione virtuosa” nella jihad ora tragicamente visibile anche a Subaraya. Non a caso, attraverso i consueti video, gli indonesiani dell’Isis in Mesopotamia avevano spesso esortato quanti si trovavano nell’arcipelago a colpire duramente il nemico “locale”. Il fatto nuovo è che ad agire in Indonesia è un’intera famiglia. I coinvolgimenti familiari avevano sin qui riguardato gruppi di fratelli. Le reti corte, costituite da parenti o amici stretti, sono, ovunque, una risposta al crescente processo di sorveglianza. Organizzare un’azione terroristica in un gruppo nel quale vi siano membri di una stessa famiglia consente di ridurre il rischio. Il legame parentale accorcia la rete, rendendola meno permeabile. Il rapporto di sangue, tanto più in culture in cui i legami familiari sono un valore primario, permette di elevare gli standard di protezione ed esercitare una forma di controllo sociale ravvicinato. La miniaturizzazione familistica delle cellule assicura maggiore protezione. Inoltre, la jihad familiare comporta vantaggi di natura psicologica. La condivisione di un’azione che comporta il “sacrificio” di uno o più membri della famiglia permette di ridurre l’ansia che investe chiunque stia per lasciare la vita terrena. Diventare un “martire” non è mai semplice. Sebbene chi aderisce all’ideologia islamista radicale si convinca che nella morte salvatrice, offerta e inferta, sarà ricordato per sempre; che immolarsi permetterà di chiamare con sé in Paradiso, come premio, gli amati familiari; che il sacrificio per la causa di Dio eleva ad altezze inebrianti, la scelta non è facile. Condividere questo percorso con un fratello, o un familiare, permette di sedare quell’inquietudine, che si fa comunque sentire, nella prospettiva di un destino comune. Consente di parlare, con chi è più vicino, della propria morte, di prepararla in modo condiviso, di fantasticare sull’onore che lo smembramento del proprio corpo, e di quello altrui, riverserà su di loro. Non sorprende, dunque, che a colpire a Subaraya sia stata una cellula composta da padre, madre, le figlie di 9 e 12 anni e i figli di 16 e 18 anni, famiglia che pare recentemente fosse in Siria. E non sorprende che l’attentato sia stato rivendicato dall’Isis. Il padre, militante della Jemaah Ansharut Daulah, gruppo alleato dell’Isis sin dal 2014, si è lanciato con un’autobomba contro una chiesa pentecostale. La donna si è fatta saltare con le figlie più piccole, nascondendo le cinture esplosive sotto il niqab. I figli più grandi, a bordo di moto, si sono fatti esplodere contro la chiesa cattolica di Santa Maria. Una sorte, probabilmente, condivisa da entrambi i genitori e dai figli, almeno i più grandi, cresciuti ed “educati” secondo i “valori” tipici dello jihadismo.