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 2018  maggio 13 Domenica calendario

Il bianco colore della morte (ovvero: la tendenza dell’autrice a farsi pianta)

The White Book (“Il libro bianco”, 2017), opera folgorante, toccante, a tratti mistica, non ancora tradotta in italiano, è uno dei sei romanzi finalisti per il Man Booker International Prize che sarà annunciato il prossimo 22 maggio. La sua autrice, Han Kang, scrittrice sudcoreana nata nel 1970 e la traduttrice inglese Deborah Smith lo avevano già vinto nel 2016 (quando per la prima volta il premio riconosce anche il lavoro di traduzione), con The Vegetarian, la prima opera di Han Kang tradotta in inglese. 
La vegetariana (Adelphi, 2016) è un romanzo essenziale, fuori dall’ordinario, per molti versi inquietante. L’originale in coreano, pubblicato nel 2007, è uno sviluppo del breve racconto «Frutti della mia donna». In questa prima versione, in un giorno comune, un uomo torna a casa dal lavoro per scoprire che sua moglie si è trasformata in una pianta. La sistema allora in un vaso. La annaffia con cura, assiste alla sua fioritura primaverile e, a fine stagione, ne raccoglie i semi, sperando malinconicamente che la moglie-pianta possa rifiorire, ancora una volta, l’anno seguente. Ne La vegetariana la vena surreale scompare per far spazio a un ben più macabro racconto di quotidiana brutalità. La trama si riassume in una semplice frase: Yeong-hye – «una donna del tutto insignificante» – un bel giorno decide di diventare vegetariana. Quella che sembrerebbe un’innocua scelta personale innesca una spirale di abusi inauditi da parte dei familiari che si oppongono all’anticonformismo della donna col pretesto di avere a cuore la sua salute. 
Alla fine della vicenda, riallacciandosi alla storia che l’aveva ispirata, la protagonista si crede pianta, rifiutando ogni nutrimento se non l’acqua e i raggi del sole. Considerata folle dai familiari, Yeong-hye diventa una figura ascetica, cristologica, arrivando persino a dubitare del valore della vita stessa, «perché, è così terribile morire?». E quello della morte è un tema che ritorna con forza in The White Book, un libro bianco e sul bianco, che comincia laconicamente:
In primavera, quando ho deciso di scrivere di cose bianche, la prima cosa che ho fatto è compilare una lista. 
Fasciature 
Vestitino da neonato 
Sale 
Neve 
Ghiaccio 
Luna 
Riso 
Onde 
...
Con ogni oggetto che annotavo, sentivo scorrere in me un flusso di agitazione. Sentivo che sì, che avevo il bisogno di scrivere questo libro e che lo stesso processo di scrittura mi avrebbe trasformata e si trasformasse esso stesso in qualcosa come un unguento bianco da applicare su una ferita 
Da questa lista di oggetti si snoda la storia autobiografica della perdita di una sorella appena nata, anni prima della nascita dell’autrice. Come succede in altri scritti di Han Kang, i punti di vista spesso si confondono. Cominciamo con l’esperienza del lutto della giovane madre che partorisce prematuramente, sola in casa, e che cerca in tutti i modi di salvare la neonata. A tratti, invece, è la scrittrice stessa che implora e interroga la sorella mai conosciuta. L’inchiostro nero delle parole emerge da un bianco della pagina mai stato così evocativo. Un bianco – un silenzio – mai prima così stordente, somma di tutti i colori e di tutti i suoni possibili. Nel White Book le parole hanno un peso, una massa. Proprio come in poesia, queste parole hanno una durata, mantengono un’aura di sacralità. 
Han Kang scrive questo libro meditativo mentre è in residenza per scrittori a Varsavia. Il bianco della neve si mischia col bianco della memoria. Memoria invisibile, ma percepibile, anche attraverso gli edifici ricostruiti dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, fantasmi di storie taciute che la circondano in questa città straniera. La scrittura diventa allora un atto purificatorio, attraverso il quale ricostruire la morte della sorella significa cominciare a vivere per la scrittrice. Ne risulta una raccolta di riflessioni che seguono il ritmo della preghiera, ma una preghiera laica, bianca e limpida, proprio perché profondamente umana. 
L’unico modo per elaborare il lutto e, allo stesso tempo, continuare a vivere eticamente è quindi lo sprazzo del ricordo, l’intermittenza della memoria così cara a Proust:
Questa vita aveva bisogno di una sola di noi per viverla. Se tu fossi sopravvissuta a quelle poche prime ore, io non sarei viva. La mia vita ha reso la tua impossibile
All’interno di quel bianco, in tutte quelle cose bianche, inalerò per sempre l’ultimo respiro
da te espirato. 

Questa ritrovata consapevolezza custodisce il profondo nesso fra questo lutto autobiografico e il lutto di un’intera nazione, quello narrato da Han Kang in un altro dei suoi romanzi, Atti umani (Adelphi, 2017), sapientemente tradotto in italiano da Milena Zemira Ciccimarra. 
Atti umani narra il massacro di Gwangju nel maggio del 1980, quando centinaia, forse migliaia, di cittadini e studenti dell’università di Jeonnam, in protesta contro il regime autoritario di Chun Doo-Hwan, sono crudelmente assassinati dall’esercito. Paradossalmente, proprio nel mezzo di questi atti (dis-)umani emerge ciò che c’è di più valoroso: la solidarietà, la dignità, la forza di continuare e, soprattutto, la grande responsabilità del sopravvivere e del ricordare. Han Kang, originaria di Gwangju, in una recente intervista sottolineava il valore catartico della propria scrittura «i miei romanzi esplorano la sofferenza umana. Sono sempre alla ricerca della verità dietro a ogni persona. Quindi, quando ho scritto riguardo al massacro di Gwanju (…) ero consapevole del fatto che i lettori dovessero, a loro volta, essere pronti (…) a provare loro stessi, tale sofferenza in prima persona». 
Alla catarsi, si aggiunga la portata etica del romanzo che, per contrastare l’amnesia collettiva imposta dalla censura, decide di fare spazio a una corale da purgatorio dantesco, nella quale i vivi si confondono con i morti, il presente col passato, la memoria con la censura, la parola con l’ineffabilità di una violenza che si vorrebbe disumana. Che il sopravvivere possa forse essere una forma di consenso taciuto? Ma ancora una volta il silenzio si sgretola nella scrittura, diventando assordante. 
Assordante è del resto anche il bianco di The White Book in cui Han Kang riconferma che, nonostante tutto, il ruolo dello scrittore è quello di continuare a creare, ricordare, comunicare anche l’incomunicabile. Anche in brandelli. Anche il silenzio. E Deborah Smith ha saputo tradurre anche il bianco.