La Stampa, 13 maggio 2018
Intervista a Valeria Solarino, che farà Palamede
Amo lo sport perché è meritocratico, vince davvero il migliore. Nel mio mestiere invece si dipende troppo dal giudizio degli altri». Valeria Solarino porta con un sorriso gentile la sua scura bellezza da guerriera, selvaggia e aristocratica. Non stupisce che Alessandro Baricco l’abbia scelta per interpretare Palamede, l’eroe greco cancellato dalla storia e dalla letteratura, bracciali, corazza e armi in mano, un magnifico perdente con cui ritorna in scena quest’estate nel Teatro Antico di Taormina, «un luogo per me sacro, le mie radici, il mio sangue, sono siciliani». Nella vita, Solarino si prepara alle battaglie sportive degli Internazionali di tennis al Foro Italico per cui ha fatto anche la commentatrice. «Sarò lì dalla mattina alla sera a seguire le partite, vado pazza per il tennis».
Che cosa le piace tanto nel tennis?
«È uno sport complesso, affascinante, una sfida fisica e mentale. L’ho scoperto tardi, da adulta, leggendo Open, la biografia di André Agassi. E mi si è aperto un mondo. Vedere i grandi campioni, come reagiscono alle difficoltà, è un insegnamento fondamentale di vita».
Cosa distingue il campione dallo sportivo di talento?
«Tutti hanno talento quando arrivano a un certo livello. Avere talento è facile. Il campione è uno che si mette in gioco fino in fondo, anche se ha già vinto tutto».
Il preferito?
«Nadal. Per il lavoro, l’umilità, la determinazione, la capacità di ascoltare le critiche. Perché non molla mai».
La determinazione paga sempre?
«Paga nello sport. Nel mio mestiere meno: sei in balia del giudizio degli altri, di quelli con cui lavori e del pubblico. E il risultato finale non è mai sicuro, è questione di gusti. Penso ai premi, ognuno di noi li assegnerebbe in modo diverso».
Un grande sottovalutato?
«Eclatante il caso di Leonardo Di Caprio, uno dei più grandi attori di tutti i tempi, fin dal suo primo ruolo da giovanissimo, Buon compleanno Mr. Grape. Eppure quanto ha faticato per ottenere l’Oscar».
Lei si ritiene fortunata?
«Sì, sono stata molto fortunata, ho avuto l’opportunità di ruoli così belli che nemmeno osavo sognare, anche se per carattere non mi accontento mai. Mi hanno offerto una tipologia ampia di personaggi. Beh, certo, il ruolo di Giulietta non me lo proporranno mai, non sono adatta»
Già, lei è il tipo della guerriera. Come Palamede, appunto, o come Elettra nell’ultimo film di Gabriele Muccino «A casa tutti bene».
«Sì, anche se Elettra, la prima moglie di Carlo (Favino) è forte, fredda, distaccata solo in apparenza, mentre in realtà è fragile e ancora innamorata dell’ex marito, incapace di rifarsi una vita. Il bello del film è che nessuno dei personaggi è univoco, proprio come nelle autentiche dinamiche familiari. Non esistono i santi e i cattivi a tutto tondo e Muccino è stato bravo a non prendere le parti di nessuno, anche Favino tira fuori la sua rabbia, le sue mancanze, la sua doppiezza».
Un ritratto un po’ cupo della famiglia di oggi.
«Un ritratto vero delle famiglie di ogni tempo. Le famiglie non le scegli, te le trovi e loro trovano te: tanti individui diversi costretti a fare squadra. Anche in questo senso, il set di Muccino è stato uno specchio della realtà. Tutti ci sentivamo protagonisti e invece nella maggior parte delle scene dovevamo fare solo le comparse. Poteva essere frustrante, invece si è creata una bella alchimia, abbiamo sentito che era importante anche non fare nulla se toccava a un altro brillare».
Lei che tipo di rapporto ha con la sua famiglia?
«Ottimo. Il nucleo base sono mia madre e mio fratello, i miei si sono separati quando ero piccola. Con mia madre, che fa la professoressa, vive a Torino e non vedo tanto quanto vorrei, ho da sempre un legame profondo, senza crisi né contrasti neanche negli anni dell’adolescenza e sono molto vicina a mio fratello, che vive nel Monferrato».
Adesso è in sala con «Quanto basta», che punta i riflettori sulla sindrome di Asperger.
«Una scoperta. Sono entrata a contatto con ragazzi particolarissimi, sensibili, intelligenti, con un senso del dovere pazzesco. Se tutti avessero lavorato quanto loro sul set, le riprese sarebbero finite molto prima. La cosa più sconcertante è che prendono ogni frase in modo letterale e questo ti costringe a notare quante volte invece noi usiamo una parola per un’altra. Per mentire, per manipolare, o anche solo per far sorridere».
A proposito di sorrisi, quanto è importante l’umorismo nella vita?
«Tanto. Sto con una persona molto divertente che sostiene che bisogna ridere insieme almeno una volta al giorno».
La maggior parte delle persone litiga almeno una volta al giorno!
«A me non piace litigare. Io e Giovanni (il regista Giovanni Veronesi, ndr) ci siamo incontrati sul set di Che ne sarà di noi 15 anni fa e non ci siamo più lasciati. A pensarci ora un titolo davvero profetico, ero molto giovane, abbiamo passato una vita insieme».
Adesso lavorerete di nuovo insieme, vero?
«Sì, nei Moschettieri del re, che esce a Natale. I moschettieri sono Valerio Mastrandrea, Pierfrancesco Favino, Sergio Rubini e Rocco Papaleo, sarà un’avventura divertente e un po’ pazza per salvare Re Luigi XIV».
15 anni insieme a suo marito, 15 anni di cinema e a novembre compie 40 anni. Il 2018 è un anno importante.
«Pensare che è cominciato tutto per caso, amavo il teatro ma come spettatrice. Poi è arrivata la scuola dello Stabile di Torino con Mauro Avogadro, che mi ha insegnato tantissimo. Il mio primo amore resta il teatro, ripetere le stesse parole ogni sera a un pubblico diverso ha qualcosa di sacro, come un rito. Ma il cinema ha il sapore di magico, di inspiegabile. L’ho pensato fin da quel primo set: La felicità non costa niente».
Invece un po’ costa la felicità?
«Costa. Ma vale la pena».