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 2018  maggio 13 Domenica calendario

La bambina che emette fatture su qualsiasi cosa

Ha trent’anni ma sembra una bambina. Al lavoro non parla mai con nessuno. Ha una relazione platonica con un amico ma si innamora di un musicista che non ha mai visto. “Eleanor Oliphant” è già un caso che rimanda, tra gli altri, all’eroe di Melville. Ma la vera malìa è nascosta altrove. Perché chi mai vorrebbe riconoscersi in un personaggio così? È una malìa obliqua quella che Eleanor Oliphant esercita sul lettore. Eleanor ha trent’anni, ma per certi versi sembra una bambina. Eleanor si pesa il seno sulla bilancia di casa e non ha mai fatto la ceretta. Ha una pianta di nome Polly, unico legame con la sua infanzia, e il mercoledì sente la madre al telefono per quindici minuti, non uno di più. Eleanor al lavoro non parla mai con nessuno e indossa guanti bianchi. A casa, usa la vodka come se fosse Xanax e il brandy come anfetamina; sdraiata sul divano, legge e rilegge Jane Eyre. Eleanor ha una relazione platonica e delicatissima con Raymond, suo unico amico, ma s’innamora di un musicista che non ha mai conosciuto: come un’adolescente, crede di avere una relazione con il cantante solo leggendo i tweet sul suo profilo. Ed è proprio questa la fantasia che più s’innerva potente nella solitudine di Eleanor Oliphant; che ne è la prova incontrovertibile. Eleanor Oliphant sta benissimo – romanzo di esordio della scozzese Gail Honeyman, caso editoriale venduto in trentacinque paesi e in uscita per Garzanti il 17 maggio (nella traduzione di Stefano Beretta) – esercita una malìa obliqua perché mette in moto nel lettore un processo di sdoppiamento. Il primo lettore dentro di noi si fa trasportare dalla struttura lineare e da uno stile a volte fin troppo frontale. Intuisce che c’è un mistero da scoprire – che, come da tradizione cinematografica, la backstory di Eleanor è consustanziale a una tragedia – e ne è felice. Questo è il lettore dei libri da classifica. Spera, non invano, che qualcuno salvi Eleanor. Ma si dimenticherà presto di lei. A non dimenticarsi di Eleanor Oliphant sarà invece il secondo lettore: quello che c’è solo in alcuni di noi, e non si lascia facilmente sedurre. È il lettore che indaga, che cerca. Non è interessato ai colpi di scena: se c’è qualcosa di vibrante nella storia, ne troverà traccia fin dalle prime pagine. “Sono una contabile e, a dire il vero, potrei emettere fatture per qualsiasi cosa: armi, Rohypnol, noci di cocco”. Questo lettore, ogni tanto, ha l’impressione di aver intravisto Bartleby lo scrivano di Melville. Oppure Akakij Akakievi?, senza il cappotto di Gogol: “La giacca si poteva indossare tutto l’inverno. Nel corso degli anni avevo più che ammortizzato il mio giubbino, ma l’avrei conservato, ovviamente, nel caso in cui in futuro ne avessi avuto ancora necessità”. Rimangono, tuttavia, impressioni fugaci: la solitudine di Eleanor è molto più umana che letteraria. È una solitudine senza grandezza. Ma proprio qui sta il punto. Eleanor è un personaggio bizzarro che resta attaccato alla nostra pelle fino a diventare abrasivo. Rappresenta perfettamente ciò che vorremmo rimuovere dalla nostra vita. La sua forza sta qui: nel fatto che non vogliamo identificarci con lei. Per questo siamo disposti anche a perdonare quello che ci è sembrato troppo ingenuo. In lei ritroviamo la stessa solitudine che – non lo ammetteremo mai – ci sentiamo addosso quando siamo sul tram, davanti a una macchinetta del caffè, su una panchina, senza nessuno con cui parlare. La solitudine, ultimo grande tabù: la inganniamo col telefonino, con i social, con le chat, rimanendo in attesa minuti e minuti a sentire Gloria Gaynor prima che qualcuno del servizio taxi ci risponda. In Eleanor c’è l’eco di qualcosa che continua a sussurrarci, ma non vogliamo ascoltare. Il vero merito di Honeyman è di non averla descritta quasi mai, se non attraverso una cicatrice sulla guancia. (La ferita che parla per noi: tutto ciò che ci rende potenzialmente infrequentabili). Alla fine Eleanor Oliphant, quasi incorporea, ci sa raccontare con umanità una delle nostre più grandi paure: quella di scomparire da vivi. Quella di non esserci. “Se un albero cade in una foresta e non c’è nessuno a sentirlo, fa rumore?”.