Corriere della Sera, 13 maggio 2018
Franco Loi, poeta
Un grande maestro di 88 anni e un timido poeta di strada. Franco Loi apre la porta della casa milanese dove vive con la moglie Silvana e il gatto Meo travolgendo – con una vitalità che attinge alla memoria – Simone Savogin, tre volte campione italiano di poetry slam. Il poeta nato a Genova nel 1930, adottato da Milano che ha ripagato imparando la sua lingua e contaminandola con elementi diversi, e il trentottenne nato in un paesino del comasco, disposto ad ascoltare più che a parlare. «Trovarmi davanti al maestro è un’esperienza impagabile. Posso solo stare a sentire», dice Savogin. «Quando comincio a raccontare mi viene fuori tutto», risponde Loi. E così è.
Loi ricorda gli anni a Genova e poi a Milano: «I genovesi hanno nomea di tirchi ma non è vero. Bisogna ricordare il detto: terribile Genova, monti senza erba e mare senza pesce. Andavi a casa loro e ti davano tutto quello che avevano, fuori non spendevano un centesimo. Il milanese invece era il contrario, entravi in un’osteria e pagava tutto lui, poi andavi a casa sua e non trovavi niente».
Parla del matrimonio lungo 58 anni («a mia moglie voglio bene, la capisco»), di ideologia («sono uscito dal Pci nel ’54»), di religione, di calcio: «Sono sempre stato milanista, andavo allo stadio, ma adesso non vedo niente, solo fumo, nebbia». Da anni Loi soffre di maculopatia. Si accosta a Savogin per guardarlo da vicino. «Ha gli occhi giovani – gli dice affettuoso – ma c’è anche saggezza in lei. Si vede che vuole sapere, imparare». Comincia subito con un discorso che gli sta molto a cuore: Dio.
FRANCO LOI – Questa notte ripensavo a una cosa. Deus in antico latino vuol dire luce. Ogni volta che io ho detto «Dio c’è» ho avuto l’esperienza di questa luce. Quando ero bambino, sarà stato il 1940, avevo un maestro che faceva discorsi talmente belli che dietro la sua testa vedevo una luce, come un’aureola. Dissi a un mio compagno: la vedi anche tu? La vedeva anche lui. Non è il Dio dei cattolici né dei musulmani né degli ebrei. È lo spirito che domina. Lo dice anche Dante nel XXIV canto del Paradiso: «Fede è sustanza di cose sperate/ e argomento de le non parventi». Perché le cose che vediamo e tocchiamo nessuno le mette in discussione. È per le cose che speriamo che dobbiamo avere fede. E questo è importante anche per capire che cos’è la poesia.
SIMONE SAVOGIN – Strano, perché sono venuto qui proprio con questa curiosità: la sua spiritualità, anche se credo che abbiamo approcci diversi. Io sono un curioso patologico e voglio sapere e scoprire e indagare.
E la poesia che cos’è?
FRANCO LOI – La poesia è come il sogno. Lo dico sempre ai ragazzi della scuola professionale dove spesso mi invitano a parlare: voi la sera quando andate a dormire non potete imporvi di sognare quella ragazza che vi piace. Vai a letto e sogni quello che l’inconscio ti dice. E la cosa interessante è che quando ti svegli te lo dimentichi. Io i sogni li scrivevo appena sveglio.
Poesia quindi è qualcosa che sfugge alla ragione?
FRANCO LOI – Sì, non la facciamo con la testa. Tutte le regole sono desunte dagli scritti. Quello che importa è ascoltare sé stessi e lasciarsi dire le cose. Se non scrivi subito la poesia che ti viene, la perdi. È l’inconscio, o l’anima. Aveva ragione Jung.
SIMONE SAVOGIN – Io non ricordo i sogni e non sono uno che li scrive, ma mi affascina questo discorso. Scrivo di getto e mi dirige spesso il suono, anche se, in fondo, cerco sempre di agganciare un senso o un messaggio a ciò che esce.
FRANCO LOI – Per scrivere poesia bisogna già essere abituati ad ascoltare sé. La poesia è qualcosa della nostra anima che dice ciò che noi non conosciamo. Ascoltarsi vuol dire: quando io ho rapporti con il mondo, con la natura, con gli altri, che cosa succede dentro di me?
SIMONE SAVOGIN – Il poetry slam è uno dei mezzi più diretti per raggiungere lo scopo che mi prefiggo sempre nella vita: conoscermi (in ogni direzione e senso). La poesia è ovunque e non è che onda. Siamo tutti onde e quando qualcosa ci entra dentro e ci fa risuonare, ci porta a far sentire ad altri questo nuovo suono che è in noi. E visto che ogni cosa muta, ciò che un poeta scrive non sarà mai la medesima onda che è entrata in lui e l’ha fatto vibrare. Per questo sintetizzo questo pensiero un po’ tortuoso con: la poesia è poesia di poesia.
I versi sono parole, suoni, musica.
FRANCO LOI – Ogni parola è fatta di suoni. Quando scrivi la cosa più importante è la musicalità. Non si tratta soltanto delle regole. Quando ero piccolo facevamo un gioco che io ripropongo ancora adesso ogni volta che vado a parlare nelle scuole. Ci si mette in circolo. Uno sceglie una parola, semplice, comune – sedia, pane, acqua, quello che si vuole – e la si ripete ad alta voce, continuamente e si vede chi, per primo, di quella parola sente soltanto il suono e non sa più il significato.
SIMONE SAVOGIN – Da 13 anni recito poesie, la prima cosa scritta risale a quest’anno, perché in realtà i miei versi nascono per essere recitati.
FRANCO LOI – La poesia già nel popolo è musica delle parole. La vera lingua è quella che si impara dalla balia e da chi ci sta vicino. Sono molto più importanti i suoni dei significati apparenti. Quando ho scritto L’angel (edito da San Marco dei Giustiniani nel 1981, ndr) sono stato tutto un mese di luglio a casa da solo, mia moglie era andata in montagna con i bambini. Io giravo per le stanze e recitavo i versi. Poi mi sedevo e li scrivevo. Capitava che componessi 10 rime e poi riprendevo a camminare recitando quello che sentivo. Dicevo cose della mia vita e venivano fuori anche cose che magari non ricordavo. Guardavo i colombi che venivano sulla finestra, ascoltavo le voci dei bambini che giocavano per strada.
Dopo ascoltare sé stessi però viene il lavoro sulla parola. Come si scrive?
FRANCO LOI – Si scrive e non si finisce mai di correggere, se si è veri poeti. Ogni tanto viene a trovarmi un amico, attore del Piccolo Teatro, che sa a memoria L’angel e mi recita dei brani. A volte gli dico: fermati, quella parola bisogna cambiarla. Qualcosa ti sfugge sempre.
SIMONE SAVOGIN – E una parola che ti appariva perfetta, poi ti sembra poca cosa, vuota. Non si finisce mai di imparare e anche di correggere, sì, ma sono abbastanza pessimista e se qualcosa è da correggere, tendo a buttarla in toto o a lasciarla perdere. Non sono molto prolifico, soprattutto perché ho composto moltissimo in passato e ne ho buttato o perso la maggior parte. Tendo a dimenticare ciò che scrivo e quando lo ritrovo mi sorprende aver pensato certe cose, perché scrivere me le fa dimenticare. Anch’io parlo per poi fissare su carta, rimugino, ripeto, urlo (a volte), poi fisso, cammino, sì, come il maestro... Questo mi fa molto sorridere e mi riscalda. Mi ripeto le cose per ricordarle fino al momento in cui posso scriverle (perché mi vengono in auto o nella doccia, spesso) ma quasi sempre le dimentico prima di scriverle.
FRANCO LOI – Poeta è colui che fa, è l’etimologia greca. Un filosofo ma anche un cuoco. Un operaio che lavorava alla Breda un giorno mi disse: a me piace il mio lavoro e quando lo faccio imparo qualcosa del ferro e qualcosa di me. Lo hanno detto i grandi e lui non li aveva neanche letti. Però ne aveva avuto coscienza. In qualche modo era un poeta. Per due anni di fila, prima di Natale, ho fatto un sogno. Un giovane sui 35 anni, elegante, in doppio petto, che mi dice: «Ricordati, comprendere è fare». E poi se ne va. Ci ho riflettuto. Così, adesso faccio una serie di cose che prima non facevo: il letto, le pulizie. Cerco di comprendere, nella vita quotidiana.