Corriere della Sera, 13 maggio 2018
L’acciaio non è più quello di prima
Donald Trump sembra un po’ in ritardo sulla storia: l’acciaio non è più quello di una volta; oggi il potere di una nazione si misura più in byte che in tonnellate di laminato. Se lette in questa luce, le tariffe che il presidente americano intende imporre su acciaio e alluminio (soprattutto cinesi) sono facili da contestare: si tratta non solo del ritorno al vecchio protezionismo mercantile, ma anche della scelta di obiettivi non strategici. Vecchio mondo e vecchia Casa Bianca.
Naturalmente, la questione non è così semplice. È vero che l’acciaio ha perso in parte il ruolo geopolitico che ha avuto in passato; ma è anche vero che Trump glielo sta restituendo; a modo suo. L’acciaio – prodotto di ferro e carbonio più eventualmente altri elementi – dal XIX secolo in poi è stato centrale nella costruzione del potere delle nazioni. Simbolo di nazionalismo e guerra, ma anche origine dell’Unione Europea, dopo avere contribuito a devastare per quasi un secolo il Vecchio Continente. La valenza geopolitica dell’acciaio è antica ma diventa dominante con le innovazioni tecnologiche di metà Ottocento.
Nella propria autobiografia, Sir Henry Bessemer racconta che ebbe l’idea del suo sistema rivoluzionario di produzione dell’acciaio dopo una conversazione con Napoleone III, nel 1854: erano gli anni della guerra di Crimea e si parlava di cannoni, fino ad allora troppo costosi se costruiti in acciaio. Tornato in Gran Bretagna, Bessemer si dedicò allo sviluppo di un sistema per la produzione di massa a basso costo: nel 1856 depositò il brevetto e nel 1858 iniziò la produzione su larga scala di acciaio. Sheffield diventò il centro industriale del settore. Per qualche anno gli inglesi dominarono il mercato. Poi, Stati Uniti e Germania recuperarono terreno con nuovi sistemi di produzione. La grande potenza del momento, l’Inghilterra, e le potenze emergenti, la giovane America e la giovane Germania, vedevano nell’acciaio il veicolo per il loro hard power, militare ed economico. In buona misura, anche il loro prestigio, il loro mito veniva esaltato dalla capacità produttiva dell’industria pesante: Otto von Bismarck è il Cancelliere di Ferro perché in quegli anni sono il ferro e l’acciaio i simboli della potenza in espansione, della macchina industriale e bellica.
Forse, Trump non disdegnerebbe di passare alla storia come l’Iron President. Non perché sia un guerrafondaio ma perché dell’acciaio sta facendo il proprio veicolo geopolitico. Secondo il presidente americano – parole sue – le guerre commerciali «sono facili da vincere» per una potenza come gli Stati Uniti. E sono anche «buone» perché tutti i Paesi che fanno affari con l’America approfittano della sua ingenuità. È una dottrina, se così la si può chiamare, che somiglia a una corrente di pensiero che negli anni Settanta ebbe una certa influenza in Unione Sovietica. Non prendeva in considerazione gli effetti e i costi di una guerra: fondava tutto sull’analisi di chi l’avrebbe vinta sulla base delle forze in campo. Da dealmaker incallito, Trump ragiona in modo simile: l’importante è chi vince l’eventuale guerra commerciale, i danni collaterali sono secondari. Si tratta di riaffermare la potenza dell’America e da questo punto di vista l’acciaio è un totem perfetto: altamente simbolico, molto amato dall’elettorato della Rust Belt (la zona tra i monti Appalachi e Grandi Laghi, un tempo fulcro industriale degli Usa) che in buona misura ha votato per Trump, comunque necessario alla produzione bellica ancora oggi (per questo la Casa Bianca ha sostenuto i dazi ricorrendo alla necessità di difendere la sicurezza nazionale).
Poco importa se non è più il cuore dell’economia come una volta. Per Trump, l’acciaio è il veicolo con il quale affermare che l’America è great again, con il quale dire a Pechino che l’espansione cinese, commerciale e geopolitica, d’ora in poi sarà contrastata. L’acciaio importato dalla Cina, obiettivo diretto di Trump, non è molto importante per gli Stati Uniti: circa il 2% del loro consumo. Ma i dazi sono l’apertura di una fase nuova del confronto tra la potenza consolidata e quella emergente. Le tariffe sull’acciaio – ha scritto la prestigiosa rivista di geopolitica «Stratfor» – sono per la Cina «un indicatore che Washington sta diventando più seria nel forzarla a rimodellare le sue pratiche commerciali, dalle restrizioni di mercato e dai sussidi all’industria ai trasferimenti di tecnologia e alla protezione delle imprese di Stato». Niente più pasti gratis per Pechino. Continua «Stratfor»: «Le dispute sono parte di un quadro più grande. La Cina è in transizione dall’essere una nazione centrata su se stessa a una che agisce all’esterno. Di conseguenza, i suoi interessi si espandono altrove e sfida lo status quo globale. La dimensione e l’influenza, accompagnate da azioni più aggressive, ne fanno un target facile e la mettono su un’inevitabile rotta che sfida direttamente il cuore degli interessi strategici Usa».
L’acciaio, nella logica di Trump, è il primo colpo nel confronto con Pechino. Non è affatto detto che sia la scelta giusta e vincente. Ma, vista così, è una mossa meno vecchia e mercantilista di quanto possa sembrare: è la guerra dell’acciaio come continuazione della geopolitica. Il ferro e l’acciaio in verità non sono necessariamente cause di conflitti. Vero che nella prima parte del Novecento la Ruhr, portentosa regione tedesca dell’industria pesante, è stata motivo di ostilità: nel 1923 i francesi la occuparono assieme ai belgi, perché la Repubblica di Weimar non rispettava gli impegni presi a Versailles sulle riparazioni di guerra (nel caso, consegna di legname e di pali telegrafici); e anche dopo la Seconda guerra mondiale il Piano Monnet di ricostruzione della Francia, accettato da de Gaulle, prevedeva il passaggio dello sfruttamento delle risorse della regione a Parigi o, come seconda scelta, l’internazionalizzazione della Ruhr, con una propria moneta e le grandi produzioni di acciaio condivise da alcuni Paesi europei.
L’obiettivo francese dell’immediato dopoguerra di soppiantare la sconfitta e colpevole Germania come potenza industriale non riuscì per l’opposizione di americani e inglesi: si aprirono così gli anni dell’acciaio veicolo di pace. Come continuazione, ma con altri obiettivi, del Piano di Jean Monnet, nel 1950 il ministro degli Esteri francese Robert Schuman rese pubblica una dichiarazione sulla base della quale si riconosceva che il carbone e l’acciaio europei non avrebbero dovuto più essere sotto l’intero controllo delle nazioni: erano stati all’origine di troppe guerre. Avrebbero dovuto essere posti sotto un’autorità comune. L’idea si concretizzerà tra il 1951 e il 1952 nella Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca): la prima organizzazione sovranazionale (formata da Francia, Germania, Italia, Benelux) che nel tempo diventerà l’Unione Europea. «Per rendere la guerra non solo impensabile ma materialmente impossibile», disse Schuman. La geopolitica dell’acciaio al suo meglio.
È una storia che ha quattromila anni. Inizia con l’età del ferro, incontra avanzamenti tecnologici nell’India del Sud cinque secoli prima di Cristo, passa per le spade di Toledo usate dalle truppe di Annibale e così conosciute dai Romani nelle guerre puniche, attraversa il Medioevo con l’acciaio di Damasco, arriva alla grande industrializzazione dell’800, ai conflitti europei. E a quella che per ora è la disputa di Trump: non ancora una guerra (commerciale), ma già azione geopolitica. L’età dell’acciaio ha un’appendice.