Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2018
Eni molto bene, dice la Marcegaglia
Riconosce che la capacità di vedere in anticipo la pesante crisi del settore, ha consentito al gruppo di uscirne più forte di prima. Emma Marcegaglia, presidente di Eni, parte da qui per ripercorrere la trasformazione degli ultimi anni. «Nel 2014 riuscivamo a pagare dividendi e investimenti con un prezzo a 114 dollari al barile, nel 2017 lo abbiamo assicurato a 57 dollari: questo dato fotografa più di altri quanto fatto non solo sull’upstream, ma anche sugli altri segmenti con la profonda ristrutturazione del mid-downstream».
C’è margine per efficientare ulteriormente la “macchina”?
La risposta è nel piano: si possono integrare di più i business e si può proseguire lungo la via dell’efficienza. C’è ancora molta strada, ma il mercato ha riconosciuto il nostro grande sforzo. Da inizio anno, Eni, al pari di Conoco, è tra le big con il progresso più forte (+20%). Inoltre, siamo cresciuti nelle valutazioni degli analisti: nel 2014 avevamo un 24% di giudizi buy (contro una media di settore del 25%). Ora, invece, siamo al 61% e nelle top picks di oltre il 40% degli analisti buy, mentre quattro anni fa non figuravamo in alcuna lista.
Nel primo trimestre la produzione è cresciuta del 4% in linea con la guidance 2018. Non è un obiettivo troppo ambizioso?
È un traguardo sostenibile e concreto anche perché dipende dai progetti esistenti, dall’avvio di nuovi e dagli interventi di ottimizzazione. Certo si può sempre migliorare, ma è un livello assolutamente in linea con i nostri piani.
Avete venduto un’ulteriore quota del 10% della concessione di Shorouk, in Egitto, a Mubadala Petroleum nell’ambito del dual exploration model. Dove si potrebbe replicare?
Il dual exploration model non è una semplice vendita, ma ci consente di anticipare la monetizzazione dei nostri successi esplorativi, mantenendone l’operatività. Si potrà replicare dove abbiamo quote di partecipazione del 100% o molto vicine e piani di sviluppo importanti come l’Area 1 in Messico (100%), Merakes in Indonesia (85%) o il Great Nooros in Egitto.
Nuove inchieste hanno investito Eni e i suoi manager. Adotterete altre contromisure interne?
Negli ultimi anni è stato fatto moltissimo in termini di compliance, di anti-corruzione e di risk management. E, ogni volta che è stata aperta un’indagine, abbiamo chiesto a una società esterna di fare una verifica interna molto approfondita. Lo abbiamo fatto nella vicenda sull’Opl 245 in Nigeria – dove, peraltro, lo studio americano esterno da noi ingaggiato, Pepper Hamilton, non ha ravvisato alcuna condotta illecita e a seguito di questo il cda ha espresso ripetutamente la fiducia alla società e all’ad -, e le abbiamo già fatte partire sia per il presunto depistaggio che per il Congo. Nel primo caso, poi, il cda, su mia proposta, ha individuato due legali, totalmente autonomi dalla società, un penalista e un civilista, perché vogliamo un giudizio completamente indipendente sugli esiti di tali indagini. E, se emergessero delle criticità, avremo tolleranza zero.
Sotto la sua presidenza, è stato fatto un importante lavoro sulla governance. Quali altre iniziative sono in cantiere?
Quando siamo arrivati in azienda, la corporate governance di Eni era già un’eccellenza e continua a essere riconosciuta come tale anche dai tanti investitori che incontro di continuo. Abbiamo perciò lavorato a migliorare ulteriomente il risk management, abbiamo costituito un ufficio di compliance che risponde direttamente all’ad e abbiamo stretto ancor di più le procedure di anti-corruzione. Quest’anno, poi, abbiamo affiancato al comitato scenari e sostenibilità un advisory board con i più grandi esperti di scenari energetici, geopolitica e decarbonizzazione. E abbiamo deciso, con il collegio sindacale, di avviare uno studio sul sistema di nomina a scadenza differenziata degli ammnistratori (“staggered board”) per capire se ha senso applicarlo anche in Italia.
Per Eni è centrale anche la sostenibilità. A che punto siete?
La sostenibilità è un filo rosso che percorre trasversalmente tutta la nostra strategia. Non a caso, qualche settimana fa, al World Economic Forum, in una riunione del gruppo ristretto, di cui fanno parte 60 presidenti delle maggiori società del mondo (dalle tlc all’energia), mi è stato chiesto di illustrare come l’Eni declina tale concetto ed è emerso che siamo all’avanguardia. Perché la sostenibilità fa parte di noi, della nostra storia, del nostro modo di intendere il business. Le faccio solo un esempio: Eni investe molto nei paesi in via di sviluppo, siamo la prima compagnia al mondo in Africa, ma ovunque andiamo ci muoviamo insieme alle comunità locali, assicurando loro buona parte del gas che produciamo o, come in Nigeria e in Congo, investendo anche nelle centrali elettriche o nelle reti. E ancora, lavorando molto su settori come l’agricoltura innovativa e la pesca per dare un contributo vero al progresso economico e sociale di questi paesi.
Da presidente di Business Europe ha un punto di osservazione privilegiato. Cosa manca, secondo lei, per arrivare a una svolta per l’Energy Union?
Su questo fronte, l’Europa ha fatto sicuramente degli importanti progressi. Sono, però, convinta che si debba e si possa fare di più sia raggiungendo un maggiore coordinamento nella regolazione sia aumentando gli investimenti in infrastrutture. Che sono e saranno cruciali se si considera che l’Europa è destinata a incrementare l’import di gas e avrà bisogno di essere sempre più interconnessa.
© RIPRODUZIONE RISERVATA