La Stampa, 11 maggio 2018
Il luppolo è la pianta dell’anno
Il luvertin alla ribalta delle cronache dopo che la prestigiosa International Herb Association l’ha dichiarato pianta dell’anno. E non solo per via dei suoi ben noti meriti in fatto di birra & C., ma anche per le innegabili virtù giardiniere, che da noi sono ancora molto lontane dall’essere colte.
Perché oltremanica, specialmente nei giardini di Scozia e dell’Irlanda del Nord, il luppolo viene utilizzato come rustico, perenne e velocissimo coprente: non per nulla le sue attraenti foglie lobate e pubescenti e gli estivi grappoli di fiori di un verde chiarissimo che con l’autunno si seccano e sembrano quasi lanternine di carta erano un motivo molto amato delle decorazione Arts and Crafts. Ogni anno ripartono dal piede, forti dei loro rizomi dalle resistentissime e lunghe radici, e in una sola stagione si impossessano con foga di steccati, pergole e bersò. Al di qua della Manica il luppolo è invece relegato ai selvatici: evidentemente le sue inarrestabili spire spaventano troppo i giardinieri alle prime armi.
Il nome botanico mette in guardia: Humulus lupulus, dove il genere pare richiami la preferenza per luoghi umidi e freschi, mentre la specie rimanderebbe all’aggressiva predominanza che è propria dei lupi. Perciò capita che nei nostri giardini venga brutalmente strappato, quasi fosse un convolvolo qualunque, quando invece basterebbero un po’ di attenzione e di ordine per ottenere magnifici effetti.
D’altronde noi italiani con il luppolo non abbiamo mai avuto una grande confidenza: anche quando si è trattato di coltivarlo a scopi economici, evitando così le costose importazioni dal nord Europa o da oltreoceano, ci siamo sempre rivelati ritardatari. È infatti soltanto alla metà del XIX secolo che risale la prima nostrana sperimentazione, quella di Gaetano Pasqui nelle campagne di Forlì.
Personaggio assai interessante, inventore di arzigogolati ed innovativi attrezzi agricoli (il suo aratro «Polivomero Pasqui» venne premiato all’Esposizione Universale di Parigi del 1867), fu il primo ad intuire che il clima del nostro centro-nord era perfetto per il luppolo. Come d’altra parte la sua storica proliferazione nei boschi di mezza Italia sembra suggerire: andar per siepi a raccogliere luvertin è da sempre un atteso refrain primaverile, gloria di profumate frittate e aromatiche zuppe... Nonostante il successo (invero sferzato da ricorrenti epidemie: incredibile quanto il luppolo sia resistente negli incolti e quanto invece sia facile ad ammalarsi in coltivazione) l’esempio non diventò un fortunato precedente. E ancora oggi i campi di luppolo con le loro alte spalliere fiorite rimangono una prerogativa d’oltralpe, tedesca soprattutto e della Baviera in particolare.
Si racconta infatti che le prime coltivazioni risalgano ai tempi di Pipino il Breve, che nel suo testamento fece legato di alcuni luppoleti in quel di Frisinga. Fu però Ildegarda di Bingen, monaca benedettina e appassionata botanica, a studiarne nel XII secolo le virtù aromatiche e conservanti: gli orti del suo convento sulle rive del Reno furono convertiti a luppolo e l’usanza si diffuse velocemente tra i trappisti. La Chiesa non approvò e per ragioni tutt’altro che sacre: dal monopolio del «gruit», il misto di erbe che era allora usato nei monasteri per la produzione di amari, traeva non pochi benefici. Il luppolo tornò in auge con la riforma protestante, tanto che Guglielmo IV di Baviera, nel suo Editto della Purezza, impose che orzo, luppolo e acqua fossero i soli ingredienti autorizzati della birra.
Di varietà ne esistono tantissime e si distinguono più che altro per sottili differenze di aroma: in giardino poco conta, con l’avvertimento che la Royal Horticultural Society consiglia l’H.l. (Humulus lupulus) «Prima Donna», particolarmente ricco di fioriture, e l’H.l. «Golden Tassels», più compatto e leggermente meno invasivo. Bellissima è poi la varietà a foglie chiare, color chartreuse: l’H.l. «Aureus».
Il luppolo è una pianta dioica: perché si abbiano i tanto attesi grappolini occorre che ci sia almeno un esemplare maschio nelle vicinanze. Per evitare il più possibile muffe e malattie funginee è meglio garantire sempre un passaggio d’aria, proprio come capita in natura quando si attorciglia a rami e steli. Per il resto, come noto, si accontenta di molto poco: sole o ombra leggera, un terreno fresco e ben drenato e il gioco è fatto.