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 2018  maggio 11 Venerdì calendario

Vita vera di un capo paranza

Un volto di cera immerso nei traffici dei vicoli. Il suo sguardo filtra da un portone tra Forcella e i Decumani. Un antico edificio sciupato, stucchi in cima, miseria a terra. Lo scalone interno è pericolante, sorretto da altissimi puntelli in legno che confermano l’idea di un terremoto mai passato. Ma in cortile, in mezzo a tanti abusi, colpisce la lucentezza curata di un’urna, custodita in un altare. Una teca a vetri quasi blindata, alta tre metri e lunga forse sei, parzialmente coperta da tendine: è la cappella votiva dedicata a un ragazzo, ma racconta una folgorante ascesa criminale. Ed è tutto ciò che resta di Emanuele Sibillo, giovanissima primula rossa del Sistema. L’adolescente che cominciò con due armi e diventò lo spietato leader di camorra ES17, il promotore di un nuovo cartello che ne riconobbe il carisma come «boss della paranza dei bambini», il capoclan violento e insieme straccione che voleva prendersi il cuore di Napoli tra le piazze di spaccio e le estorsioni a tappeto, ora è la cenere che riposa dietro le antine bianche, e quel mezzo busto realizzato a sua immagine. Aveva cercato la fine da leader: meglio cadere sotto i colpi dei nemici con braccio armato in aria, prima. Invece di affrontare il carcere e le condanne che avrebbero spazzato via tutti, dopo. Non si può non partire da qui, da quei suoi capelli a cresta e la barba lunga da jihadista riprodotti nella cappellina, o dalle iniziali replicate ovunque. Intorno, cento rose rosse e bianche di stoffa, le pergamene, i suoi veri occhiali da miope, perfino un profumo realizzato apposta con le sue cifre incise sul flacone. Tutto esposto alla luce del sole. E insieme drammatico e trash, oltre che abusivo. Come le vite che si sprecano da queste parti. Classe 1995, Sibillo è stato ucciso la notte del 2 luglio 2015, mentre tendeva un’imboscata ai suoi rivali di cosca. Era latitante e aveva solo 19 anni. «Quando uccidi un re non lo fai in silenzio. Lo uccidi dove tutta la corte può vederlo morire«, dice Amsterdam Vallon, il vendicatore di Gangs of New York. Allo stesso modo, Sibillo stava portando la morte fin dentro la tana dei Buonerba, i nemici detti “Capelloni”. Ma anche loro, sicari ventenni, s’erano allenati sullo stesso disegno: farlo cadere sotto gli occhi dei suoi sgherri. E vinsero per pazienza e codardia, raffiche sparate alle spalle. Ma già non era più Emanuele il corpo che agonizzava nell’afa estiva della corsa in ospedale. Era diventato ES17. Perché S è la diciassettesima lettera dell’alfabeto. «E perché quel numero la schiatta la sfiga, anche se poi non è andata così», mormora adesso Mariarca Savarese, la sua vedova-ragazzina, madre dei due figli del boss. Mariarca, 23 anni, è l’unica delle donne di questi camorristi che ora comincia a farsi qualche domanda. «A un certo punto ho pregato che facessero più in fretta le guardie a capire dove era latitante. Io ho sperato che Emanuele finisse dentro, ma non l’ho mai detto, non avrei potuto». Non è andata così e a bruciarsi è stato lui, nonostante avesse quel numero col fuoco tatuato sotto il cuore. Anche Pasquale, più grande di quattro anni ma piegato al carisma del fratellino, se l’era fatto incidere. Nella secolare piazza San Gaetano, lo avevano anche disegnato alcuni writer. Polizia e amministrazione comunale li hanno fatti cancellare, ma la simbologia viaggiava ormai oltre i business e la paranza. Così, nel portone di un vico intitolato ai santi, che scende dal Decumano al mare, quel presidio funerario è solo l’ultimo arredo fai da te, al pari dei balconi, dei solai, dei terrazzi, dei parcheggi. Bizzarrìa, agli occhi degli stranieri. Anche nel weekend del Primo Maggio scorso ad alta concentrazione di turisti, qualche visitatore passa e fotografa il mini mausoleo.È quello che i napoletani, in gran parte, rimuovono. E i camorristi precoci continuano a celebrare. Alla Procura per i minori di Napoli, dove le statistiche 2017 hanno segnato formalmente l’allarmante aumento degli adolescenti reclutati dalle cosche, lo confermano: «Per molti ragazzini è quasi un idolo, questo Sibillo». Alcuni che vivono nei quartieri residenziali ti chiedono: «Ma davvero è esposto, quel busto?». Se si parte da qui, si scorge quella fetta di Paese che si vorrebbe confinata nei faldoni penali e nei titoli di cronaca nera, mentre è più estesa di quanto la patologia criminale suggerisca. Il Paese delle famiglie inesistenti o che hanno mollato. Dei loro figli al bivio tra uccidere ed essere uccisi, delle periferie nutrite di rabbia e delle gang giovanili che cercano il videogioco eterno: sparare, abbattere rivali, avere soldi, femmine, discoteche, champagne, salvarsi la pelle ogni notte e rimetterla subito in gioco. È il deserto educativo e politico in cui crescono – o crepano – dieci, cento, migliaia come Sibillo. 20 gennaio 2011 – In bagno con le calibro 9. Prologo – Comunità Oliver, Scisciano, Nola Ma la testa scolpita di ES comunica anche altro: da qui non ce ne andiamo, neanche cadaveri. Il capoclan ragazzino non ha mai abbandonato la postazione. Tuttora sua madre è vestale irriducibile del culto. Qui nella casa dove tutto cominciò, inverno di sette anni fa. Da un piano alto piovono pistole. È il 18 gennaio 2011. Emanuele ha 15 anni e due mesi. È il suo primo arresto. Qualche luminaria ancora accesa, una grigia mattina, gli sbirri che indagano sulla nuova faglia tra i clan del centro storico. I poliziotti arrivano dai Sibillo e quelli non aprono, il commissario Mario Gatti e gli uomini della Mobile picchiano, quelli resistono, poi dall’interno rumore e un tonfo secco in cortile. Qualcuno scaraventa giù da un finestrino due pistole: Beretta, calibro 9, complete di caricatore e proiettili. I poliziotti di sotto, collegati con quelli di sopra, verificano la verticale: in corrispondenza, nell’appartamento, c’è il bagno in cui quel quindicenne con la frangetta e gli occhi sottili è sorpreso a lavarsi le mani. Le ha gettate giù lui: è minore, lo portano via con gli adulti. Il padre Vincenzo, il fratello Pasquale detto Lino. Tre giorni dopo, arresto convalidato e scatta la misura alternativa: l’approdo nella comunità Oliver, a Scisciano, associazione Jonathan. Dove la responsabile Silvia Ricciardi e il fondatore Enzo Morgera si accorgono subito che Emanuele non è uno come gli altri. Niente sfide né rispostacce. E sugli altri ha un ascendente. «Quando è arrivato da noi, ha mostrato subito l’attitudine a fare il capo. A differenza degli altri, non usava il dialetto, voleva esprimersi in italiano. Teneva all’idea che tutti gli altri si attenessero alle regole, vigilava sul comportamento altrui. Se qualcuno sbagliava o mancava di rispetto agli operatori, si irritava come se gli avessero fatto un torto». No, Sibillo non è come gli altri. Segue i tg nazionali. Legge, si informa. Il ciclo di scuola media, però, l’ha terminato solo grazie all’intervento dei maestri di strada, il progetto nato decenni prima grazie a due formatori d’eccezione, Cesare Moreno e Marco Rossi-Doria. «Mi presi la licenza senza andare in aula. La verità? Stare al chiuso per ore non mi è mai piaciuto», sorriderà Sibillo all’équipe interna. Coltiva, invece, un’altra passione: le biografie dei leader. 9 settembre 2011 – La fuga. Sognando i capimafia Isola di Nisida, Napoli Politici o criminali, crudeli o rivoluzionari. Sibillo legge di Cutolo e Che Guevara, chiede di Mussolini e Bin Laden. Vuole sapere dei padrini di mafia. Un ricordo resta agli atti: rivendica la condizione di «rinchiuso» e quando scrive dalla comunità, è solito datare così le lettere: «Grand hotel Oliver», proprio come i corleonesi ribattezzarono il loro hotel Ucciardone. Ed è così protettivo nei confronti di un padre fragile ( prima artigiano, poi pregiudicato), che lo chiama: «o’ ni’» : il ninno, il bambino. Anche quando scrive al carcere di Poggioreale, in cui il fratello Pasquale è detenuto col genitore, si raccomanda: «Pasca’, accort’ o’ ni’», abbi cura di nostro padre. Da gennaio a settembre, ogni mese Emanuele fa inoltrare ai suoi avvocati la richiesta di lasciare Oliver, chiede la «permanenza in casa». Ma non la otterrà: degradato e pericoloso il contesto, nessuna garanzia educativa dalla famiglia. Istanza respinta. Così “evade” dalle stanze senza sbarre. Scappa dalla comunità di Scisciano, nella piana del nolano. Gli manca Napoli, gli mancano i vicoli. A 16 anni è latitante, per pochi mesi. Lo riprendono, lo riportano dentro, stavolta al carcere minorile di Nisida. Ma ancora gli viene rico nosciuta una via d’uscita. È accolto nella comunità pubblica del Quadrifoglio, dove corsi di montaggio e regia rappresentano – o dovrebbero – una piccola chance ( cui il governo, già anni fa, ha poi tagliato i fondi). Sibillo comincia a concentrarsi sull’uso dei mezzi di comunicazione, elabora, scrive. Con un velo di compiacimento si cala nel ruolo dell’aspirante giornalista, si fa aiutare a preparare brevi interviste. Incontra educatori, fa domande a margine dei convegni. «Non pensa che le misure alternative possano essere una soluzione?», eccetera. Scene beffarde, a rivederle. Ma poi, finito il servizio, si fa registrare mentre insulta clan di altri quartieri. In apparenza, sta cambiando. Nella sostanza, studia da piccolo boss. Un altro insegnante di comunità, Giovanni Nicois, racconta che, col pretesto di un giornale appena letto, Sibillo prende carta e penna e illustra l’organigramma della camorra cittadina. «Partecipava con sincerità. Ma capii che era già dentro». «Un giorno – racconta un altro – leggeva il libro del magistrato Catello Maresca sulla cattura del padrino dei casalesi Michele Zagaria». Anche Serena Capozzi e la responsabile Lidia Ronghi avevano colto qualche scintilla. «Su Sibillo c’era da lavorare. Se avesse trovato altro, fuori dal carcere, non sarebbe finito così». Fuori, in effetti, avrebbe messo a segno la ribellione contro i Mazzarella e i loro amici Buonerba, gli odiati “Capelloni”. Pistole e denaro sempre a portata di mano, come mostrano i video. Azioni armate contro le case e i luoghi frequentati dagli avversari. Raffiche alla cieca: di giorno di sera di notte. Scorribande che nel gergo sono diventate le “stese”: in cui sono caduti cittadini innocenti, feriti o morti. Le “stese”, odioso neologismo che simboleggia l’ostentazione del potere delle paranze, e il clima di guerra che in alcune ore si instaura nelle aree della terza città d’Italia. Sibillo e gli altri usano, senza neanche saperlo, il gergo rivisitato delle sette di malavita d’Ottocento: la Con le intercettazioni dell’inchiesta che stroncherà l’organizzazione, i pm Francesco De Falco ed Henry John Woodcock tracciano, insieme al procuratore aggiunto Filippo Beatrice, il profilo di una leva criminale che lega la rabbia liquida delle gang di tante metropoli agli affari al dettaglio delle consorterie mafiose. C’è il ricorso a un linguaggio social e insieme arcaico, in quei faldoni: nei profili falsi di Facebook, killer e picchiatori si ribattezzano Batman o RobDeNiro, nella vita di ogni giorno hanno soprannomi che sembrano fumetti: Poppetta, ‘ Nzalatella, ‘ o Pop, ‘ o Palumm, Zecchetella, Recchiolone, perfino Giggino- per- esempio. Ma poi fanno ricorso ai giuramenti come intercalare, si chiamano tra loro ammore, vitamia, frat’. Parlano tanto. E in ogni frase c’è la morte. «M’adda muri’ mammà, m’anna muri’ tutti i frate miej» : devono morire i miei, anche mia madre, se stessi mentendo. È la loro paranza. E al fianco di Sibillo, ci sono i Giuliano e i Brunetti. Giuliano: cioè Toni e Guglielmo, una delle porzioni di un’estesissima generazione criminale cominciata con i sei fratelli e centinaia di parenti e luogotenenti su cui regnava Loigino detto “il re”, che fu, dai Settanta ai Novanta, a capo di un impero di camorra. Contrabbando e toto nero per miliardi, droga, yacht e amici influenti, oltre al famigerato scatto di Diego Armando Maradona, sorridente e vestito nella vasca a forma di conchiglia con i due fratelli – narcotrafficanti e mondani – del boss Loigino. E poi ci sono i Brunetti, come Manuel. Stesso nome, quasi stessa età, identica sete di comando di Sibillo. Ma Brunetti, figlio di un pregiudicato, è già un assassino: a diciassette anni non compiuti ha ucciso a Forcella una guardia giurata inerme. È scappato in Spagna, poi catturato. Non a caso lo chiamano ‘ o Chicco: acerbissimo e appetibile, per il Sistema. Ecco cosa c’era, là fuori, ad aspettare Sibillo. Fuori dai temi e dalla videocamera, c’è il miraggio di un suo indipendente business. La smania di “prendersi” Napoli, di rendersi autonomi dai Mazzarella, di farsi pagare le tangenti dai loro dipendenti Buonerba: anche sulle forniture di cocaina, erba e eroina spacciata dai rivali. È il giorno di Natale del 2012 quando Sibillo ottiene la libertà. Lascia l’istituto minorile di Nisida. Sei mesi più tardi, è già un capo. In grado di ordinare sparatorie. 29 giugno 2013 – I summit e gli agguati Vico Zuroli, Forcella Un tracciato di vicoli che si intersecano a valle della cattedrale, un fazzoletto di scavi e chiese ricchissime su cui si è insediato il male. Forcella continua a essere vita che pulsa rumorosa, ma anche rione popolato di fantasmi. Quelli dei morti innocenti (come Annalisa Durante, uccisa a soli 14 anni, nel 2004, colpita da una pallottola vagante) e dei loro assassini ( come Salvatore Giuliano, condannato a soli 20 anni, centrò la ragazza mentre sparava ai rivali). E dei troppi criminali che si sono succeduti nei decenni. Sibillo è ancora diciassettenne quando, in seguito al pestaggio di uno dei suoi alleati, partecipa a Forcella a un summit di camorra. Sono in nove, si incontrano in una casa del famigerato vico Zuroli: feritoia di crimine endemico, stradina dove trent’anni anni fa uno dei Giuliano scaraventò sua moglie dal terzo piano alla strada. I partecipanti sono diretti in uno di quei palazzi detti “a spuntatore”: perché posseggono più varchi e attraversandoli si può sbucare da un indirizzo all’altro. La squadra Mobile, però, è sulle loro tracce, li ascolta, individua l’isolato. Ma sono almeno sessanta gli appartamenti da controllare, le perquisizioni dureranno ore: e Sibillo, avvertito mentre sale, si nasconde e comincia a inviare sms preoccupati al complice, Salvatore Cedola detto Poppetta. «‘E guardie. Esci, vedi, racconta». Quello non può muoversi, Sibillo scrive febbrilmente, 45 sms in meno di sessanta minuti: in quale scala stanno, controlla, cosa fanno. «Un’incredibile successione di messaggi», annota il giudice Dario Gallo nella sua ordinanza: fino alla «inquietante idea». Sibillo dispone: «Chiav’ ‘ nu par’ ‘ e cunfiett’ in aria, miezz’ a via». Confetti, cioè pallottole. Significa: spara in strada subito, e distrai la polizia. Poppetta esita, ma dopo poco incarica due su uno scooter: scatta la raffica. Due in motorino premono il grilletto. Almeno cinque colpi tra i passanti. E infatti feriscono un ignaro cittadino, Pietro Feroce, medicazioni in ospedale, per fortuna non è grave. La Mobile li scova, trova i loro giubbotti antiproiettile. Tutti in stato di fermo. Sibillo chiama sua madre: «Uè dice che devi venire in Questura perché so’ minorenne, mi stanno portando». È solo l’inizio. Come racconta Marco Mariano, boss pentito dei Quartieri Spagnoli, Sibillo parteciperà ad almeno due altri summit: uno al rione Sanità nel 2013, un altro nel borgo degli Orefici nel 2014. L’ex padrino Mariano spiega perché ES aveva il carisma del capo: «Sibillo mi sembrò autorevole e deciso. E anche rispettoso nei miei confronti. Voleva capire noi da che parte stavamo». Alla vigilia del Natale 2013, il capoclan organizza un’aggressione armata contro la fazione avversa dei Giuliano. È lui stesso a vantarsene, intercettato. «Questa era la mia imbasciata: Guagliu’ dissociatevi dai cugini vostri perché tengono il problema con me. Qualsiasi Giuliano avevo davanti io lo uccidevo (…). Io andai con la pistola in mano, sopra da Caciotta (il pregiudicato Pasquale de Martino, ndr), e dissi: dammi soldi e la roba». Porta via anche la droga dei nemici: è l’oro di quei vicoli. «La gente delle varie piazze viene da me, noi lo sappiamo il consumismo di Forcella ( la quantità di roba che si spaccia, ndr). Li vedi mo’ 9mila euro in una settimana?». La notte del 30 dicembre del 2013, in casa degli altri Giuliano con cui sono cresciuti insieme, la Mobile registra una lunghissima conversazione. È la strategia criminale di ES, connotata, per il giudice Gallo, da due condizioni: «La necessità di imporre agli altri la fornitura della droga e la compattezza del nuovo cartello». In quella lunga notte che precede l’ultimo giorno dell’anno, si citano i nemici da combattere e si mangiano i torroncini, si rivendicano pestaggi, si scarrellano pistole. Fino alle tre del mattino. Emanuele detta le condizioni: «Io già so che se la piglio ( la droga, ndr) è perché so il materiale che tengo io. Io lo dico a tutte le piazze (di spaccio, ndr): io qualora vi dessi roba mischiata da me è perché me l’hanno mischiata, perché io personalmente non lo so fare. Io non ne capisco: non capisco di erba, non capisco di cocaina, io tengo a Tonino che ne capisce, ma mica gli faccio mettere le mani dentro? Lui deve solo fare le consegne, la gente così è più contenta». Il confronto con gli alleati si fa serrato: «Ti dovessi credere che perché sono Emanuele (piccolo, ndr ) devo pigliare un euro?». Allora Guglielmo Giuliano lo consacra capo: «No, giustamente. La barca chi la sa portare, tu? Tu che tieni 18 anni? E tieni più qualità degli altri». Sibillo vive la sua ossessione: «Hai capito che fanno, i Mazzarella? – riferisce ai Giuliano – Fanno i brindisi alla faccia dei Sibillo e dei Giuliano. Dicono: “Non sono nessuno”. Si stanno rinforzando, hanno aperto pure le piazze. Ti dovessi credere che io mi scordo? Io penso sempre a loro. Notte, mattina, giorno, sera». Mesi prima, gli agguati avevano colpito entrambi i fronti. Tentano di sparare contro il fratello di ES17, Lino Sibillo: Emanuele risponde con «una scorribanda per i vari quartieri di Napoli» di cui i pm captano ogni fase. Analoga vendetta scatta dopo il ferimento di suo padre. Ma quest’ultimo è stato colpito perché Sibillo jr., come racconta il collaboratore di giustizia Yassir Atid, avrebbe sparato contro Emanuele Catino, esponente del cartello nemico, reo di non avergli consegnato mille euro. «Era un pretesto», aggiungerà il pentito. ES voleva scendere in guerra. Contro i vecchi. Estate 2014 – Mariarca. I video, le giostre, le zuppe di latte – Rione Sanità «Emanuele stava fuori tutta la notte. A mezzanotte, io andavo a dormire e lui usciva. E guai se al ritorno non gli facevo trovare i suoi biscotti. Quello, appena si svegliava, si doveva fare la sua zuppa di latte e voleva solo i suoi frollini, gocciole o pan di stelle. Una volta che glieli nascosi, mi chiuse in bagno, mi insultò: ma per gioco. Da me si faceva fare i video, i selfie, tutto. Qualche volta siamo andati anche alle giostre, anche una villeggiatura in Cilento sono riuscita a farmi. Anche se lui si faceva rispettare da tutti, con me faceva il bambinone». Mariarca, la compagna del fu boss Sibillo, classe 1995, è madre di due figli. I lineamenti morbidi, un ovale che sembra uscito indenne sia dalle notti del lusso in discoteca, sia dalle scene di morte e paura. Intorno alle gambe, in casa, girano il gatto Fiocco e il pitbull Kira, che annusa tutti fino all’inguine. Tradisce uno sguardo di bambina. Un’acerba adulta: è il sigillo di intere generazioni che costeggiano l’enorme zona del Sistema. «Entrate, non ho niente da nascondere». La sua porta di casa si apre su una delle colline nascoste di Napoli. Vicoli e gradini, grumo di edifici e salite aggrappate tra loro dietro le quinte più nobili di via Foria, scale che cominciano e come in una litografia di Escher non sai come si piegano e dove spuntano. È il rione dei Miracoli. Stare con un leader criminale per due anni, farci due figli, non le ha lasciato nuovi status. Né ricchezza, né vie di fuga. «Lo sapevo che quella strada che aveva scelto era sbagliata. Ma non giudicavo, e non ci potevo fare niente, ero innamorata. Ma lo so che se stai nel Sistema non torni indietro, sei fottuto. Mica puoi tornare a fare il bravo guaglione. E poi, diciamo la verità: quando vedi che arrivano i soldi senza fare niente, quando vai più a lavorare? Mica vai a fare il pizzaiolo o il parrucchiere per novanta euro a settimana». Mariarca prepara la cena per i bambini nella cucina all’ingresso, nella camera da letto una zia, la zia Titina, stira una montagna di bucato. È l’anziana signora, di poche parole e parecchio buon senso, che diventò madre a 15 anni e ora ha due figlie a Londra con rispettivi mariti. Ed è lei che ogni tanto fa balenare alla giovanissima vedova l’idea di una vita diversa: «Glielo sto dicendo a Mariarca di salvarsi: di andarsene a Londra dove stanno le cugine. Certo, lo so che ora in Inghilterra ci vuole il passaporto, ma lei avrebbe un sussidio di disoccupazione, potrebbe studiare, trovare lavoro». Scuote la testa: «Non so perché non lo fa». Mariarca ci pensa: «Ho un po’ paura». Il disagio di un aereo e di una città nuova suscitano apprensione in una ragazza che è stata l’ombra di un capoclan in guerra. «Di soldi ne arrivavano. Ma io non chiedevo niente – spiega Mariarca – Però quando chiedevo, lui dava. Mi serviva qualcosa? “Tieniti i soldi”. Uno sfizio? “Tieni”. Poi venivano gli altri e lui spartiva ai suoi, io però me ne andavo proprio. Solo che lui tornava e diceva con un sorriso: “Ahé, mi hanno spogliato tutti quanti”. Io però adesso penso che anche se ti fai 5mila, 6mila o pure 8mila euro al mese, alla fine li paghi tutti di avvocati, se ti va bene. O ti fanno direttamente il funerale. Ma non ho mai parlato di questo con lui. Emanuele pensava che di queste cose dovevano parlare solo i maschi. E le donne dovevano stare al posto loro, pensare ai figli e stare zitte. Lontane dalle tarantelle. Diceva: ‘ E femmine ‘ anna fa’ ’ o ragù». Cosa sognava di fare, da grande, Mariarca? «La velina, la letterina. Vedevo quei programmi e sognavo. Il diploma superiore non l’ho preso. Con Emanuele ci siamo conosciuti nel rione Sanità, era il 2013. Anche io vengo da una famiglia che si fa rispettare. Mio padre l’ho visto pochissimo in vita mia: ha fatto in tutto una ventina di anni di carcere, cumuli di anni per rapine». Sorride amaro. «Perciò mia madre mi prese in disparte e mi disse: “Stai uscendo con questo? Ma come, hai visto la vita che ho fatto, a spaccarmi la schiena con le pulizie e vuoi fare lo stesso sbaglio? Io mi sono separata dopo tanti anni, e tu fai la stessa cazzata?”. Quando uscii incinta di Emanuele, a 19 anni, io e lei abbiamo pianto per giorni, ma ognuna da un lato». Colpisce sentirle snocciolare com’era la loro quotidianità fuori dalle sparatorie. Il versante domestico e infantile di un ragazzo che faceva – e aveva – paura. Ormai rasato, e con la barba lunga. «Tornava dalla strada verso le sei del mattino, si metteva a letto. Poi si svegliava verso le tre o le quattro del pomeriggio. Si faceva la zuppa di latte e prendeva il telecomando: “Uomini e Donne”, i tronisti, la de Filippi dal letto. Poi, una volta a settimana, ci vedevamo anche “Gomorra la serie”, era forte. Poi la sera spesso andavamo a ballare, le discoteche a Pozzuoli, fuori Napoli. Tenevamo il nostro privé: se qualcuno per un caso lo occupava, il buttafuori li allontanava subito. Una volta che andammo al luna park di Edenlandia, Emanuele si divertì come un bambino. Ecco, mi restano solo tanti video». Decine di ore di girato. Una vita tra camera da letto e cucina. E sui loro mezzi: gli scooter. Lei lo filma ovunque: anche mentre balla e stringe una maxi bottiglia di champagne. Perfino nel grottesco: lui addormentato in bagno per un’intera notte, lei che lo scuote delicatamente, ma pensa. E oggi lo dice: «Che vita di merda». Quando nasce il primo figlio, Emanuele organizza una festa nel rione. Parallelamente, lei assiste impotente alla sua mutazione, anche fisica. «Non era più il ragazzo con la frangetta. Cominciò a farsi la testa pelata e la cresta e a farsi crescere la barba, come quelle dei terroristi: quelli che parlano arabo e si vedevano in tv. Emanuele chiamava il barbiere di fiducia, se la faceva stirare e perfino profumare, la barba. A me non piaceva, gli dicevo: “Come sei brutto”, da me lo accettava». Un padre che sapeva di campare poco. «Non so se arrivo a vent’anni», aveva detto a sua madre. «Quando mi accorsi che aspettavamo il secondo figlio – prosegue Mariarca – fui tentata di abortire, ma lui non volle. “Se poi vado in carcere, un altro figlio lo facciamo tra vent’anni?”. Ma il secondo non è riuscito a vederlo. Voleva che i suoi figli si esprimessero in italiano, mi sfotteva: tu gesticola, parlo io con loro. E teneva le ragazze appresso». Lo corteggiavano? «Assaje. E lui mica era uno qualunque, era Emanuele Sibillo, faceva gola. E io mi incazzavo. Poi facevamo pace». Carezze che sono ricordo. Ora Mariarca dovrà tenere lontano dal male i suoi bambini. «Io ai miei figli racconterò la verità. Non gli dirò che è stato un incidente. Glielo spiegherò come è morto il padre. Glielo devo dire che queste strade non portano a niente, e che non finiscono bene: solo carcere continua?
o morte. Però saranno sempre i figli di Sibillo, quindi li devo far crescere lontano da Napoli. Spero di avere la forza per farlo. La forza della testa, ma anche quella economica. Perché non è vero che uno nasce condannato. Nella mia famiglia ci sono anche quelli che si sono salvati. Mio fratello ha evitato una serie di strade, adesso guadagna una miseria, 80 o 90 euro a settimana. I miei cugini: sono diventati dei bravi parrucchieri, hanno due o tre sedi. Pure i figli miei voglio che si mettano a lavorare». Giugno 2015 – Noi come Bagdad. La strada della morte – Rione Vicaria, Napoli Fuori da selfie e carezze, quel ragazzo semina dolore, coltiva una spirale di morte e violenza. Il suo gruppo non esita a falcidiare vite innocenti. Il 2014 si apre con un delitto choc: è la notte del 14 febbraio quando, in discoteca sulla costa flegrea, a Pozzuoli, Sibillo e suo fratello finiscono invischiati in una tragica rissa. La vittima è un anonimo cliente, si chiama Maurizio Lutricuso, ha avuto l’idea di chiedere una sigaretta al gruppo sbagliato. Ne nasce una zuffa, Lutricuso viene ucciso seduta stante, nel parcheggio. Le indagini inizialmente coinvolgono anche ES17 e suo fratello. Dopo l’omicidio di Emanuele, l’incriminazione resta in piedi solo per Pasquale: che, alla fine sarà scagionato dal Riesame. «L’ho schiattato... Dici jà, ti è piaciuto?», così il presunto assassino, legato ai Sibillo, se ne faceva vanto. E poi ordinava due saltimbocca. Passano pochi giorni e, stavolta nel centro cittadino, a Porta San Gennaro, viene ucciso Massimiliano Di Franco, sotto gli occhi della moglie incinta: ha il torto di essere uscito da anni dal giro dello spaccio, si è rifatto una vita dopo aver lavorato come operaio a Marghera. Il gruppo dei Sibillo gli chiede di aprire una piazza di spaccio, ora che è tornato a Napoli. Lui dice no. Sarà sua moglie a ridargli giustizia: pronuncerà al processo il nome dell’assassino, Alessandro Riccio, mentre arrivano insulti e minacce in aula, anche al pm Woodcock. Un boss legato ai misteri della Prima Repubblica, Giuseppe Misso, confermerà al processo: «Seppi che era stato Riccio, uno dei ragazzi della paranza dei bambini dei Sibillo». E c’è un altro innocente la cui brutale morte è addebitata alla coalizione di ES17: Luigi Galletta, un meccanico di ventun anni, incensurato, viene assassinato con tre colpi al petto, perché è parente dei nemici. A massacrarlo, un minorenne grosso e spietato, amico di Sibillo. Per i Buonerba, ormai, ES17 è un cancro. Lo temono come il loro tiranno, da quando Emanuele ha mandato i suoi ragazzi a ordinare che i “Capelloni” paghino il pizzo sulla droga e ad altri di lasciare case e quartiere. Un affronto insostenibile. I Buonerba hanno il quartier generale in via Oronzio Costa: neanche cento metri di vicolo, che sbuca ai fianchi dell’antico Tribunale di Castel Capuano, lo scenario di sicari e magnaccia, di capiparanza, guappi e tamurri raccontati ne da Francesco Mastriani, turbolenta malavita, anno 1864. È lì, in via Costa, che si spara con frequenza agghiacciante, tra la primavera e l’estate del 2015. Il giudice Paola Piccirillo, colei che poi condannerà all’ergastolo gli assassini di ES17, scrive che in quella stradina, solo tra il 26 e il 29 giugno del 2015, «si registrano tre gravi azioni di fuoco», messe a segno con scorribande armate. Dozzine di colpi sparati alla cieca, quasi ogni giorno. È quella che Gennaro Buonerba detto Genny, ridendo con i soci, definirà «la settimana di Bagdad». I Sibillo attaccano, la prima volta, il 26. Uno dei Buonerba la racconta ancora inferocito: «Bell’e buono si alzano sopra il motorino e bum bum bum. La gente ci pariava… Come dobbiamo fare con questi che vengono a sparare tutte le sere?». La seconda volta, il 27: «Noi però sparammo dieci botte», spiega Genny mentre intorno a lui è pieno di cimici installate dalla polizia. Poi il terzo scontro a fuoco. Violentissimo. Ad attaccare è il braccio militare di Sibillo, il diciassettenne spietato Antonio Napoletano, ‘ o Nannone, che i rivali chiamano Satana. Con lui ci sono altri due ragazzini: Mattia Campanile di 15 anni e Taieb D’Andrea di 17. Il paradosso è che questi ultimi sono “evasi” da una comunità per minori per partecipare all’esecuzione. Ma anche stavolta i nemici reagiscono: li feriscono tutti. La faida è nella sua fase più cupa. Il cerchio si sta chiudendo. 27 gennaio 2018 – L’allarme invisibile: bambini boss Castel Nuovo Dimenticate la tribù napoletana che si autotutela. Dimenticate anche gli scugnizzi -“pidocchi” di Pasolini, sotto i cui occhi si tuffavano ciurme di ragazzini a Santa Lucia. Quelli che li hanno sostituiti sono ragazzi già spezzati, dentro. Emotivamente fragilissimi, militarmente ostinati. Lo scrittore Giuseppe Montesano, che continua a essere insegnante che ascolta e “vede” i suoi allievi, ha raccontato alcuni di loro come individui «completamente spaccati a metà, tra l’orsetto di peluche comprato all’ipermercato e lo spaccio pomeridiano nei luoghi delle periferie coatte; tra bisogno di affetto morboso, infantile, con un’età mentale e affettiva di tre anni, e un’età reale, fisica, di quaranta, e quaranta vissuti nella totale alienazione da bello e bene. Un ragazzino di tredici anni di certe scuole medie oscilla tra un bambino affettivamente disastrato e un adulto disastrato. Per cui ha un cinismo da adulto, il peggiore possibile, e nello stesso tempo una fragilità morbosa dal punto di vista affettivo: veramente un miscuglio tragico». Mezzo bambini, mezzo uomini. E sempre più reclutati dalle organizzazioni criminali. È ciò che confermano gli ultimi numeri della giustizia minorile ( dal giugno 2016 al giugno 2017) nel distretto di Napoli, quando il Procuratore generale Luigi Riello e il presidente di Corte d’Appello Giuseppe De Carolis ragionano, a margine dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, su questi dati: dieci procedimenti per associazione di stampo mafioso, 14 per narcotraffico, 27 per omicidio, 19 per tentato omicidio, 457 per reati in materia di droga. Anche se i numeri diminuiscono – da 3.735 a 2.807 notizie di reato, calo dovuto in buona parte alla depenalizzazione – «si registra invece un progressivo e preoccupante aumento della gravità dei fatti denunciati». E si consolida «il segnalato sempre maggiore inserimento di minorenni nelle associazioni mafiose». Troppi hanno 16 o 17 anni. Catello Maresca, un altro pm anticamorra, la toga che ha arrestato il superboss dei casalesi Michele Zagaria, ora anche da padre (di quattro figli) riflette: «Serve una strategia globale che coinvolga tutti i settori dello Stato e della società civile. Quando il problema arriva a noi magistrati, in molti casi, è già troppo tardi. Allora si parla di emergenza, di politiche, di un nuovo Piano. Ma troppi anni sono passati, troppe vittime e assassini, mentre aspettavamo tutti il Piano. Arresti e condanne non bastano, anche se occorre essere estremamente rigorosi: regole chiare, processi veloci e pene certe. Eppure, serve soprattutto altro. Chi esce da un periodo di detenzione trova spesso la stessa casa senza riferimenti, la stessa famiglia inadempiente, gli stessi genitori inseguiti dalla giustizia». Ma il procuratore capo di Napoli, Gianni Melillo, che già aveva affrontato il problema agli Stati generali dell’antimafia di Milano, è solito mettere in guardia da letture parziali del Sistema. «È rassicurante la narrazione secondo cui la camorra sarebbe questo contenitore di violenza urbana – sottolinea Melillo – e cioè: una contrapposizione tra bande che ridurrebbe lo scenario a puro fenomeno delinquenziale, segnato da profondo disagio sociale, emarginazione e povertà educativa. Tutto questo esiste, certo. E va studiato. Ma non si trascuri che oggi i principali cartelli camorristici e criminali coincidono con sofisticate costellazione di imprese. Si fondano su un sistema di relazioni solidissime». I Sibillo, i Brunetti, i Buonerba sono gli anelli deboli. Destinati, in un modo o nell’altro, a soccombere. Ma prima, dov’è lo Stato? Chi si occupa delle generazioni nel limbo? 2 luglio 2015 – L’esecuzione. “Eliminato il tumore” – Loreto Mare Buio, Sibillo jr. si è nuovamente lanciato nel corpo a corpo della notte, si è infilato nel budello sotto casa dei nemici con le armi in pugno. Il capoclan della paranza dei bambini non rinuncia ai raid neanche ora che è latitante. L’inchiesta dei sostituti De Falco e Woodcock, con migliaia di pagine di informative della Mobile, è infatti sfociata, venti giorni prima, in un blitz con sessanta arresti. Tutti presi, tranne i fratelli Sibillo. Emanuele pare si nasconda al Conocal, il rione della periferia est, deserto di Ponticelli, dove tuttora sono numerosi i casi di minori coinvolti nei clan. I Sibillo sfuggono al carcere, ma tallonano i nemici. Il 2 luglio alle due, con pistole e mitragliette, puntano contro porte e finestre di via Oronzio Costa. Non sanno che i Buonerba hanno posizionato i loro cecchini, silenziosi cavalli di troia infilati ai piani terra, nei bassi. ES spara, insulta, guida la paranza: sono in sei, su tre moto. La polizia troverà a terra tredici bossoli di vario calibro. Ma appena gira le spalle, parte il tiro incrociato. È lui la preda. Una sola pallottola: «Foro di ingresso regione dorsale destra». Sibillo agonizza, lo portano in due su un T Max all’ospedale Loreto Mare: lo accompagnerà suo fratello Pasquale senza neanche temere di essere catturato (e difatti evapora, lo prenderanno quattro mesi dopo). Gettano a terra la moto. Dall’impianto di videsorveglianza si vedono i pazienti terrorizzati che scappano in vestaglia, i fedelissimi di Sibillo non vogliono barelle, lo portano a spalla, mettono a soqquadro l’ospedale, minacciano i medici: quel ragazzo si deve salvare. Tutto inutile: è ormai morto. Mariarca arriva in ospedale col pancione di cinque mesi. Nessuno la ferma, nessuno pensa a bloccarla mentre, trascinata da altre donne, irrompe in Rianimazione. «Lo vidi sotto il defibrillatore, mezzo nudo. Non rispondeva. Alcuni giorni dopo andammo a cremare Emanuele. Sua madre commissionò quel busto. Io andai a partorire». 11 settembre 2015 – Dio non manderà nessuno a salvarci – Rione Sanità Chiesa gremita, funerali con i palloncini, bambini e ragazzi che piangono. Sono passati solo due mesi dall’omicidio di Sibillo e le “stese” non sono finite, in centro storico. Anzi. La sparatoria del 6 settembre 2015 al rione Sanità, neanche due chilometri da Forcella, è il riverbero della guerra tra paranze, mai sopita: e nell’azione di fuoco notturna resta sull’asfalto Genny Cesarano. È un ragazzo di sedici anni, l’unica colpa quella di tirare tardi la sera in piazza, ai piedi della Basilica della Sanità. Un altro innocente ucciso. Durante la cerimonia funebre, è padre Alex Zanotelli, il missionario comboniano, a dover dare ai fedeli quel cazzotto che non ci si aspetta: «Badate – dice – qui adesso dipende da noi. Dio non manderà nessuno a salvarci». Gelo. Zanotelli non le ha mai risparmiate a nessuno. È triste quella mattina, non si fa trascinare dalla retorica degli slogan e dei palloncini. Tre anni dopo, Zanotelli ha appena celebrato messa con il suo amico don Antonio Loffredo, il parroco della Basilica, mentre frotte di turisti risalgono dalle catacombe. Ma ancora troppi ragazzi continuano a rapinare, spacciare, sparare. «Certo che lo ridirei», Zanotelli si tira via la tonaca, addosso una delle sue t- shirt. «Dio non scende a correggere le traiettorie, ci spinge a darci da fare. Dio non è regista delle soluzioni in extremis. Purtroppo, le fasce sociali più deboli di Napoli sono state abituate a non pensare e a non esigere; le altre, a non occuparsene. Se i cittadini riempissero le piazze e rialzassero la testa come quando scendono in piazza per un goal di Koulibaly, le cose cambierebbero. La camorra ha ancora il dominio e si sta mangiando la vita dei più piccoli e innocenti. Don Milani diceva che uscirne da soli è avarizia, uscirne insieme è politica. Ma dov’è, davvero, la politica? Primo. La scuola. Possibile che, solo nel rione, abbiamo quasi 50mila abitanti e non ci siano neanche un asilo nido comunale e una scuola media? E che, dalle medie alle superiori, perdiamo il 40 per cento di ragazzi? E che nell’unico Istituto superiore che avevamo, ci fosse il 70 per cento di bocciati? Gli impegni seri promessi sempre dai ministri dove sono?». E poi la formazione. E poi la sicurezza. Padre Alex dice che lo preoccupano, come le pistole, quelle tv nei bassi sempre accese. Vecchia storia, l’aveva raccontata nel ’ 90 Antonio Capuano in un film durissimo e perfetto, Vito e gli altri. «Se sono fortunati e non sono buttati in strada, ragazzine e maschietti, dai sette anni in su, sono abbandonati per ore e ore davanti a Retequattro e Canale 5. Tutto quello che sognano è fare soldi e imitare la vita che vedono lì dentro. Soldi, donne, successo. E hanno tutti gli schermi enormi, che loro chiamano “al plasmòn”», dice Alex senza un sorriso. Morta una paranza, se ne fa un’altra. A Ponticelli, solo qualche giorno fa, i sicari di camorra hanno ucciso un ragazzo di diciannove anni, che già aveva un suo curriculum. Aveva cominciato a tredici anni, e poi si era consegnato all’escalation delle rapine e della droga. Si chiamava Emanuele, veniva dal rione Conocal, lo stesso in cui si era rifugiato Sibillo durante la latitanza. E di ES17 portava anche il nome. Chissà se era mai stato in quel portone del centro antico, dove una cappella ha trasformato in culto trash una sconfitta collettiva. 2 luglio 2015 – Brindisi nel golfo Porticciolo Nazario Sauro Mare calmo. Asciugamani, flûte di cristallo e bottiglia di champagne. Sullo sfondo il Vesuvio. Quattro ragazzi, sotto il sole, prendono il largo dal porticciolo di via Nazario Sauro, versante lungomare, che dista duecento metri dagli hotel di lusso. Sono ancora euforici. Si chiamano Gennaro Buonerba detto Genny, Luigi Criscuolo, Andrea Manna e Antonio Amoroso. A parte Manna, hanno tutti sui vent’anni, e Amoroso è considerato dai camorristi «il Maradona dello sparare». Solo alcune ore prima, nella notte, hanno sparato tredici colpi nella «Bagdad» di via Oronzio Costa. Per la giustizia italiana, hanno ucciso ES 17. «Abbiamo rivoltato Napoli, ci dovrebbero mettere una borsa di soldi sopra al tavolo», diranno al telefono, alludendo alla riconoscenza degli altri clan napoletani. Sono quelli che la giudice Piccirillo definirà «colloqui autocelebrativi ed esaltanti» relativi a una «strategia del terrore rivendicata con orgoglio» e a un «clima di guerra dagli effetti devastanti in termini di ordine pubblico e diffuso sentimento di perenne insicurezza in città». A coprire i killer, quel giorno e in seguito, sarà un luogotenente della storica cosca dei Mariano, Maurizio Overa, poi pentito. La sua deposizione traccia un filo anche geograficamente limpido tra la Napoli criminale e la città bene. «Dopo l’omicidio vennero a casa mia, alla Riviera di Chiaia. Si fidavano di me. Ci scambiammo un sorriso e capii da Antonio che lo avevano ucciso. Gli asciugamani per la doccia me li fornì Mimmo, il quale ha un bed & breakfast, ed è titolare di un bar alla Riviera. Diedi loro le chiavi di casa mia e li ospitai per tre giorni. Al mattino, mi chiesero di noleggiargli un gommone da Pacioccone, una bottiglia di champagne e i bicchieri di cristallo. Volevano festeggiare in mezzo al mare». Al tramonto il commando di assassini torna alla Riviera e stavolta c’è il capo di Overa, il boss Marco Mariano, ad offrirgli una cena sontuosa. Rientrano di notte, sempre nello stabile che guarda al mare e alla Villa comunale. Oggi quel bar, quel bed & breakfast sono ancora lì, aperti ai turisti che parlano ogni lingua. Avranno cambiato gestione. E a pochissimi passi, una targa indica la casa in cui è vissuta Anna Maria Ortese. Un secolo dopo, il mare non bagna Napoli. Si limita a lavare le mani dei carnefici.