la Repubblica, 11 maggio 2018
È Torino la città del libro, rassegnati Milano
Tra code agli ingressi e ritorno dei grandi editori il Lingotto prova a scacciare l’incertezza sul futuro. Selva Coddè (Mondadori): “Vedremo se ci sarà anche l’anno prossimo”. Bray: “La fiera di Milano è stata un errore” TORINO L’applauso più forte, al taglio del nastro, è stato quando Javier Cercas ha evocato il demone del nazionalismo. Il demone della discordia e della disunione che rischia di uccidere l’Europa. Ed è in quel battimani ostinatamente prolungato che va cercato l’inconfondibile carattere del Salone torinese, la più grande comunità del libro che ieri ha cominciato la sua festa in un’Italia più che mai sospesa. Un paese che rischia di sbandare dalla parte del populismo innervato di xenofobia. E il Salone non resta indifferente, la sua storia non glielo permette. E sarà pure l’edizione della pace, quella del ritorno dei Giganti, dei gruppi che l’anno scorso avevano disertato. Ma è come se il fiero Salone, sopravvissuto a mille insidie, inseguito dai creditori, un po’ sdrucito nella moquette azzurra rappezzata che non basta a coprire il pavimento, volesse ricordare ai grandi editori che il loro compito non è solo fare profitti, ma esercitare un ruolo culturale. Lo dice con leggerezza il direttore Nicola Lagioia: «Fatevene una ragione. Al Salone non amiamo i libri perché li vendiamo, ma ne facciamo vendere così tanto perché li amiamo senza tradirli». Il libro non è una merce come un’altra. Ancora più esplicito è Massimo Bray, il timoniere nella cabina di regia. «Fare una fiera a Milano è stato un errore», dice con franchezza, rivendicando al Salone un’idea diversa di cultura. «La difesa del Lingotto è stata un modo di mostrare che esiste una parte del paese non piccola che chiede di costruire un futuro differente dalla storia degli ultimi decenni. Donne e uomini che affidano ai libri, al dialogo, all’ascolto un progetto di crescita civile». Uno straordinario patrimonio che però rischia di disperdersi. E quanto più s’allungano le file all’ingresso fino a occupare quasi l’intero piazzale, quanto più accorrono le star internazionali e si mobilitano le scuole, tanto più il destino del Salone resta incerto. E fa effetto vedere tanti politici in prima fila, non si ricorda da tempo una pattuglia così nutrita di rappresentanti dello Stato, dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati a quello della Camera Roberto Fico, e poi c’è anche Dario Franceschini, ministro d’un governo che non c’è più. Un ministro che ha creduto nel Salone. Evoca una battuta di Umberto Eco, rivolto ai ministri della cultura europei. Dovete essere portatori conoscenza, perché guerre e campagne di odio derivano dall’ignoranza. Forse un commiato non casuale, quello di Franceschini, in un’Italia che rischia l’intolleranza delle camicie verdi. Il futuro del Salone appare nebbioso anche nello stand del primo grande gruppo italiano, Mondadori, la cui scritta svetta sui numerosi marchi sottostanti (con il malumore di qualche einaudiano). L’amministratore delegato Enrico Selva Coddè ha l’aria di chi aspetta alla finestra. «Il prossimo anno “Tempo di libri” ci sarà sicuramente. Il Salone non so: aspettiamo di capire come va a finire». In altre parole, siamo tornati, ma del domani non v’è certezza. Nello stand accanto c’è 66thand2nd che insieme ad altri duecentocinquanta marchi indipendenti ha dato vita ad Adei, sigla autonoma dall’Aie: per uno strappo che si ricuce – Torino e grandi gruppi – un altro che si riapre. Nella geografia degli allestimenti editoriali, il ritorno dei colossi non ha oscurato la visibilità degli editori amici del Salone: resiste al centro della scena Sellerio con la sua cattedrale di copertine blu, e poco più in là si staglia nitida la casa editrice e/o, celebre in tutto il mondo per i romanzi di Elena Ferrante. Ma è proprio Sandra Ozzola Ferri, nel suo debutto da presidentessa di Adei, a lamentare la reclusione di trenta piccolissimi marchi nella nuova tensostruttura detta pretenziosamente Padiglione 4, una terra di nessuno dove non si sa come arrivare. «Sono stati i mille metri quadrati di Mondadori a provocare la cacciata di marchi fedelissimi a Torino, che si erano prenotati fin da febbraio». Forse a creare “l’apartheid”, come scherzosamente viene ribattezzato, è stata solo una cattiva organizzazione (Mondadori rettifica: «Solo 600 metri quadri. E poi se il Salone ci vuole, dovremo pure farci vedere»). Era prevedibile che nel Salone dei Miracoli qualche cosa non andasse per il verso giusto. Già è tanto che i creditori non siano venuti a manifestare, come annunciato in una burrascosa missiva: Bray s’è impegnato a dare risposte certe nella conferenza di chiusura. Risposte certe le aspettano anche i lettori: che fine farà la città del libro? Si potrà realizzare il progetto annunciato dal presidente Chiamparino: una doppia regia, pubblica per il profilo culturale e privata per l’organizzazione? Su questo punto Selva Coddè è molto esplicito: «Non so l’Aie, ma noi come gruppo Mondadori non siamo per niente interessati all’organizzazione del Salone: non è il nostro lavoro». Sembra cadere dalle nuvole anche il direttore commerciale della società che gestisce la Fiera di Bologna, evocata da Chiamparino come uno dei soggetti che potrebbe essere coinvolto nell’appalto. «Sono all’estero e non so niente di questa vicenda», risponde Marco Momoli. Che ne pensa Sandro Ferri, anima della nuova società degli editori indipendenti? «La formula indicata da Chiamparino solleva perplessità: chi sono questi privati che si occuperanno della parte organizzativa? E fino a che punto il soggetto pubblico potrà dettare la linea culturale?». Ma voi potreste essere interessati? «Siamo in 250 nell’Adei: magari potremmo versare ciascuno una quota. Parlo a titolo personale». “Salvare il Salone” è lo slogan di questa edizione. Ci riuscirà la politica? Mancano tre giorni per saperlo. In gioco è qualcosa di più d’una fiera commerciale.