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 2018  maggio 10 Giovedì calendario

Intervista a Antonino Cannavacciuolo

Una casetta di torrone, in cui le mandorle siano le pietre del muro… un tetto spiovente di biscottini e forse… aiuole di confetti! ma poi chissà che succede, perché è solo la curiosità il mio principio ispiratore: basta che cambio la disposizione a un mattoncino, e la costruzione cambia». Così, dunque, Antonino Cannavacciuolo, che oggi apre gli incontri del Salone del Libro di Torino e, per regalare ai lettori un habitat a loro conosciuto, accetta la mia sfida di legare dei libri a dei piatti. Gli ho chiesto della casetta di Hänsel e Gretel, dalla celeberrima fiaba di Jacob Ludwig e Wilhelm Karl Grimm, ma gli chiederò anche di immaginare una “Colazione da Tiffany”, per gli amanti di Truman Capote. Fa così lui: si fa guidare da un’idea estemporanea. È quello stesso sguardo che gli si può riconoscere quando guarda gli ingredienti. Ha un tempo di latenza superiore a quello che ognuno di noi dedicherebbe a un uovo, a un vegetale. Lui ne è consapevole: «Mi prendono per pazzo quando dico che l’ingrediente mi parla». Io invece no, non lo prendo per pazzo, credo sia vero per ciascuno di noi quando si accinge a trasformare la materia, che sia per piacere o per lavoro: “Ho visto l’angelo nel marmo” recita una frase attribuita a Michelangelo Buonarroti. Gliela cito, e a lui viene in mente suo padre – Antonino Cannavacciuolo, nella nostra conversazione, parlerà sempre, mani in pasta, di suo figlio e di suo padre, che si chiamano Andrea tutti e due, come tradizione del Sud vuole. Allora mi fa vedere una cosa che oggi, a quindici anni dalla prima stella Michelin, oggi che ha 160 collaboratori – «ma è brutto chiamarli collaboratori, sono degli angeli: io lavoro per loro e loro lavorano per me» – mi arriva come un atto fondativo: un gruppo di pastori ( le statuine del presepe natalizio) costruito a mano da suo padre, che rappresentano il momento in cui si scanna il porco. C’è la tradizione contadina, c’è “l’ingrediente”, e c’è il gesto artistico, in quello che mi fa vedere, e credo che lui lo sappia: che in quella rappresentazione plastica c’è tutto se stesso, compresa l’immensa riconoscenza che dobbiamo a chi ci ha cresciuto. Qualche giorno fa, per suo padre, ha preparato un dolce: rappresentava l’universo. Scritto così rischia di avere una grandeur che non è quello che voleva essere: è anzi il contrario, è l’omaggio del bambino al suo papà. I pianeti erano cosparsi di polvere d’oro alimentare. Il padre ( classe 1949) ha detto: «Ma io non lo voglio mangiare», perché era troppo bello, allora Antonino ha preso un cucchiaio e l’ha fatto lui, l’ha distrutto lui. Questa è l’altra costante del suo lavoro: una cosa che lo salva dall’esasperazione, dalla ridondanza, e anche dal prendersi troppo sul serio: fa un lavoro effimero, che muore poco dopo la sua realizzazione. È per questo che Cannavacciuolo, in un libro di ricette, ci sta stretto, perché scripta manent, e a lui questa idea della perpetrazione non piace. Guarda a piatti che ha inventato anni fa, che presero 3 forchette, e li disconosce, alla lettera dice: «Che cazzo ho fatto?». Allora nel libro che promuove al Salone di Torino per Einaudi, e che è diventato il pretesto del nostro incontro, mette le ricette, sì, ma per parlare d’altro. Prima di tutto della convivialità: A tavola si sta insieme recita il titolo. Gli contesto che c’è una bella e lunghissima scena di Dillinger è morto di Marco Ferreri, in cui Michel Piccoli, mentre pulisce – con olio da cucina – tamburo e cane di una pistola da Far West, prepara per se stesso una magnifica cena. Piccoli si dilunga: è francese ( e la cucina prestata alla scena era quella della villa di Tognazzi), quindi prima di ogni altra cosa stappa una bottiglia di rouge, gli fa prender aria, poi mezzo calice a sé e mezzo al brasato in pentola. La tavola è apparecchiata per uno e al centro vi troneggia un magnifico vassoio di formaggi. Eppure lo chef di Vico Equense e Marco Ferreri vogliono dire la stessa cosa: perché che si sia nati nel Sud Italia, e quindi si pensi al cibo come momento esclusivamente conviviale, oppure che si introietti l’apatia dell’alta borghesia francese, quello che sostengono questi due autori è: cucina chi ha passione, non si cucina per sfamarsi, per quello va bene un tramezzino, si cucina per amore. Chi cucina per sé si ama e chi cucina per gli altri ama ancora di più. Cannavacciuolo nel suo libro ascolta quello che le terre che attraversa hanno da dirgli. Ne ama in particolare due: quella che gli ha dato i natali, la Campania, e quella adottiva, della moglie, il Piemonte ( non sono proprio i giorni giusti per chiedergli se tifa Juve o Napoli, mi mordo la lingua… mannaggia), e per risarcirci, almeno a tavola, dell’onta centenaria di una divisione, li fonde in un unico menù. Il menù Nord/ Sud prevede: 1) Gorgonzola, alici e sedano verde, 2) Calamaro, ricotta Seirass e animelle, 3) Risotto allo zafferano, ricci e salsiccia di Bra, 3) Trippa di agnello, gamberi in tempura al curry, salsa al Porto e cipolla candita, 4) Zuppetta di panettone, cremoso all’arancia. Lì dove io, da amante quarantennale della zuppetta, mi chiedo come sia possibile che diventi panettone… Ma mattoncino dopo mattoncino si torna in famiglia: qualche giorno fa la sua primogenita ha compiuto undici anni e hanno fatto insieme la torta da portare in classe. L’ostia che la ricopriva era la tavola che i disegnatori Disney gli hanno dedicato sull’ultimo Topolino. «Per me è come l’Oscar, cosa c’è di più bello che entrare nel mondo dei bambini?», si emoziona, lo chef con il modus agendi di Bud Spencer, il gigante buono. È per questo che di tutte le ricette legate alla letteratura di cui parleremo oggi al Salone, lui ha deciso di costruire proprio un piatto legato alle favole. «Amo le favole per i ragazzi, e costruire questa casetta è un modo per stare vicino ai miei bambini, visto che faccio un lavoro che mi tiene sempre impegnato la sera. Mettiamola così: non posso raccontare loro Hänsel e Gretel mentre stanno a letto? E allora glielo racconto costruendo la casetta!». Qualche anno fa, meravigliato come un bambino quando gli fecero il carro allegorico al carnevale di Viareggio: «Ma non era per sfottere, eh?». Si meraviglia perché ricorda con sicurezza quando ha cucinato la prima volta, aveva tredici anni e preparò un piatto di spaghetti al pomodoro. Con i san Marzano? «Sì, con le passate di famiglia». Le bottiglie? «Eh». Le bottiglie sono delle conserve che si fanno ad agosto al Sud, in grandi pentoloni si bollono i recipienti per sterilizzarli, e si spellano e passano i pomodori. Ci vogliono giornate intere e sono coinvolti interi nuclei famigliari. E che facevate più? «Il tonno sottaceto e la frutta candita». Ricorda con chiarezza l’infanzia, e questa parte di vita che ci sta in mezzo la guarda tutta nel suo intero. Nel racconto, di essa punteggia alcune cose semplicissime, e altre del tutto fuori dall’ordinario. Lui che va a raccogliere con suo figlio i cuori di bue: mi vuoi far credere che hai fatto crescere dei cuori di bue sul lago d’Orta? Ma dai. «Ho addossato i filari a un muro, così che li ripari dal vento, e che rilasci nelle ore più fredde il calore che ha assorbito dal sole», un minuto dopo ha la prova degli abiti per Masterchef. Lui che gioca a costruire un forno nel terreno, lui che ha sei interviste concordate nello stesso giorno. «A proposito, è giovedì, eh, il Salone? Arrivo da Milano». Sì, è giovedì, è oggi: dove gli svelerò che mio marito non gli perdona la “pastiera liquida”, e forse avrò il coraggio di chiedergli se Napoli o Juve.