La Stampa, 10 maggio 2018
Elogio della cicoria selvatica
Il tarassaco è sublimato da bottone a soffione. Quest’anno il caldo improvviso che, in un’era orfana di mezze stagioni, ha incalzato dappresso il gelo invernale, in meno di una settimana, ha spinto le erbe spontanee dei prati dalla gemma al seme. Orfano del tenerume primaverile, mastico con stizza le foglie tenaci del dente di leone, rimpiangendo i giovani virgulti quando facciano capolino timidi sotto alla neve disciolta dai primi tepori di maggio. Questa cicoria selvatica dal fiore eliantico che, come il girasole, fratello maggiore provenzale, segue il sole, è depurativa, colagoga, epatotonica e rinfrescante, dopo le libagioni invernali a base di burri, strutti, lardi e soffritti. Stordisce di bontà se consumata cruda, accompagnata a cipolle nuove, ma già in globo, bollite in acqua acidulata e di molto sale e uova barzotte di galline corritrici, che si cibino solo di germogli, lombrichi e semi di granaglie neglette dalla mietitura. Due prese di fiore di sale di scoglio, un cucchiaio di aceto vecchio di botte, menta e piantaggine in germoglio e olio di dicembre accompagnano con dolcezza un piatto della rinascita che le punte dell’asparagina di campo, raccolta sotto agli ulivi, arricchiscono di amarostico brivido per una forchettata di diuretica, depurativa voluttà. Ma al clima, come al cuore, non si può far ammenda né opposizione, se non accoglierne i doni, quando li porti. In insalata finiranno allora i precoci pomodori, già fragranti di estate ventura.
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