La Stampa, 10 maggio 2018
Kim libera tre americani, un monito anche per l’Iran
Nell’ottica di Trump, la liberazione dei tre detenuti americani avvenuta ieri in Corea del Nord è un risultato della sua linea «America First», che sta dando risultati con Pyongyang, e perciò l’applicherà anche a Teheran. Una politica estera più muscolare, che nel primo anno di presidenza era stata frenata da collaboratori prudenti come il segretario di Stato Tillerson, il consigliere per la sicurezza nazionale McMaster e quello economico Cohn, il capo del Pentagono Mattis, ma ora è diventata la norma.
Ieri l’ex direttore della Cia e nuovo capo della diplomazia Pompeo era in Corea del Nord, dove ha incontrato per 90 minuti il leader Kim Jong-un, allo scopo di preparare il vertice con Trump. L’incontro dovrebbe avvenire nella prima metà di giugno a Singapore, e il nodo da sciogliere è l’interpretazione della parola «denuclearizzazione» da parte dei due Paesi. Per Washington, vuol dire disarmo completo e immediato, mentre Pyongyang in passato ha usato i negoziati per guadagnare tempo, conservando poi le sue capacità militari. Kim comunque ha detto che ora intende concentrarsi sulla crescita economica del suo Paese, e ieri ha lanciato un segnale conciliatorio liberando e consegnando a Pompeo i tre detenuti americani di origine coreana, Kim Dong-chul, Tony Kim e Kim Hak-song, accolti ieri notte a Washington da Trump.
Il capo della Casa Bianca ha elogiato il leader nordcoreano, dicendo che nel prossimo vertice «potranno accadere cose positive. Punto ad ottenere una vittoria per il mondo, non solo per noi». Nello stesso tempo, il presidente ha lasciato aperta la porta al dialogo con la Repubblica islamica, dopo aver abbandonato l’accordo nucleare. Però ha lanciato un avvertimento: «Devono capire com’è la vita. Consiglio agli iraniani di non riprendere le attività nucleari. Se lo faranno, ci saranno severe conseguenze».
Il tono è lo stesso usato con Pyongyang, e spera di ottenere un risultato simile. La massima pressione applicata su Kim lo ha spinto al tavolo negoziale, anche se le sue vere intenzioni sono ancora da verificare. La stessa strategia dovrebbe convincere gli ayatollah a trattare un accordo vero, perché l’alternativa sarebbe un aumento della pressione economica e militare, e magari il cambio di regime, auspicato dal nuovo consigliere per la sicurezza nazionale Bolton. Alcuni analisti dicono che Trump ha sbagliato ad abbandonare l’accordo nucleare, perché così ha segnalato a Kim che non può fidarsi. Lui pensa invece il contrario: stracciando il Jcpoa ha chiarito a Pyongyang che vuole un’intesa seria, e ha indicato a Teheran che, per trovare una soluzione pacifica alla crisi, deve seguire la stessa strada della Corea del Nord.
L’incognita riguardo alla riuscita del piano sta ora nella reazione delle varie parti coinvolte. La Cina ha aiutato a fare pressioni su Kim, e comunque gli Usa avevano gli strumenti economici e militari per minacciarlo in autonomia. Con l’Iran la situazione è più complessa, perché ci sono più attori. Russia e Cina, ad esempio, potrebbero approfittare del vuoto per attirare definitivamente la Repubblica islamica nella loro orbita. La chiave di volta, però, sarà soprattutto la reazione europea. Se il Vecchio continente resterà fermo nella difesa del Jcpoa, e negozierà con Pechino, Mosca e Teheran condizioni sufficienti a tenerlo in piedi, Trump si ritroverà isolato e in difficoltà. Se invece le sanzioni, che al massimo tra sei mesi colpiranno anche le aziende europee, convinceranno gli alleati a rinunciare all’accordo e seguire la leadership Usa, la linea «America First» potrebbe riuscire a costringere anche l’Iran a negoziare.