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 2018  maggio 09 Mercoledì calendario

Alla fine di quest’anno avremo votato dieci volte

Non fai in tempo a riporre la tessera elettorale nel cassetto che ti serve di nuovo. Tra politiche, regionali, comunali, ballottaggi e voti da rifare, i seggi d’Italia pare non chiudano mai. O quasi. Abbiamo iniziato a marzo, in pompa magna, con la prospettiva (evidentemente illusoria) di eleggere un Parlamento che a sua volta avrebbe garantito la fiducia a un governo. Ci è andata male, a due mesi dal conteggio delle schede l’unica cosa certa è che è tutto da rifare. Fosse quello, poi, il problema ci si metterebbe pure una pezza. In qualche modo. Il guaio è che nel frattempo sono stati chiamati alle urne i cittadini del Molise e del Friuli (quelli di Lombardia e Lazio, almeno, se la sono sbrigata in una volta sola). Successivamente toccherà alla Basilicata (in autunno), alla Val d’Aosta (il 20 maggio) e al Trentino (il 21 ottobre). Tutti in date diverse, che non sia mai che qualche accorpamento dell’ultima ora possa pregiudicare o meno la politica politicante. Non è nemmeno finita qui: il 10 giugno tocca a 793 Comuni dello Stivale, 21 capoluoghi e sette città con più di 100mila abitanti. Quindi bisogna mettere in conto il doppio turno. Olè. Il risultato è che i seggi tricolori rischiano di diventare infiniti. Della serie: tu stai lì, con la tua bella matita copiativa in mano, sai quando inizi ma non sai quando finisci. LE DATE E nel marasma collettivo ci mancava giusto l’ipotesi di un voto anticipato (a luglio o a dicembre, cambia poco) e la puntualizzazione che nel 2019 sono in cartellone anche le elezioni europee. Un vero e proprio jack-pot: in un anno solare gli italiani hanno votato almeno dieci volte. Sarà anche un dovere civico, ma così rischia di tramutarsi in una farsa. Oramai fare i presidenti di seggio sta diventando un lavoro a tempo pieno, altro che crisi occupazionale. Senza contare, va da sè, la questione portafoglio: che uno non ci pensa, ma la burocrazia ha i suoi costi. Scuole chiuse, cabine da allestire, schede da stampare. Militari da mettere alla porta, personale da mettere alla scrivania, sistemi informatici da rodare. Non una, ma decine di volte. Son soldi che se ne vanno, e non sono nemmeno pochini: le elezioni politiche del 2013 (l’ultimo dato disponibile, l’amministrazione trasparente ha i suoi tempi) sono costate alle tasche pubbliche la bellezza di 389 milioni di euro. Che divisi per le 61.597 sezioni in cui è spartito il Belpaese fanno oltre 6.100 euro a sezione. La democrazia paga, non c’è dubbio. NIENTE ACCORPAMENTI Si poteva risparmiare qualcosina accorpando le varie tornate locali con le politiche, ma niente: i partiti, un po’ ovunque, non hanno ceduto. Convinti che l’esito sarebbe stato falsato dalle elezioni parlamentari (fatto tra l’altro smentito dai risultati laziali di marzo), hanno mancato l’appuntamento. Costringendoci a sborsare milioni. Sì, perché le voci di spesa di cui sopra – stipendi delle forze dell’ordine, compensi per gli addetti impiegati e fornitura del materiale – restano pressoché invariate anche a livello territoriale. Insomma, bisogna pagarle in qualche modo. E mettendoci assieme anche il (probabile) ritorno alle urne il conto lievita. In un anno solare le casse ministeriali, prima fra tutte quella del Viminale, potrebbero segnare un esborso di circa un miliardo (due elezioni politiche di seguito, sei regionali di cui due “low-cost” e quasi ottocento comunali): con la beffa di restare con un nulla di fatto nei palazzi del potere di Roma. E di avere, magari solo per una manciata di mesi, un esecutivo “neutrale”. Cioè tecnico. Cioè non eletto da nessuno. Come se manco ci fossimo andati, al seggio