Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  maggio 09 Mercoledì calendario

Quarant’anni fa Messner scalò l’Everest senza bombole

Sull’Everest, la storia dell’alpinismo è cambiata molte volte. Nel 1924, la scomparsa dei britannici George Mallory e Andrew Irvine ha reso famosa nel mondo quella montagna tra il Nepal e il Tibet. Nel 1953, mettendo piede per primi sulla cima, il neozelandese Edmund Hillary e lo sherpa Tenzing Norkay sono diventati delle star globali. Quando, l’8 maggio del 1978, l’altoatesino Reinhold Messner e il tirolese Peter Habeler arrivano sugli 8848 metri del Tetto del mondo senza utilizzare maschere e respiratori a ossigeno, non cambiano solo la storia dell’andar per montagne. Ma danno un contributo importante alla scienza.
I RISCHI«Ho alle spalle centinaia di spedizioni, incluse le traversate dell’Antartide e della Groenlandia sugli sci. Ma non ho dubbi, l’Everest senza ossigeno è stato il mio exploit più rischioso» spiega Reinhold Messner, 73 anni, in una pausa dei suoi impegni come regista, conferenziere e proprietario di musei. «In cima all’Everest la pressione atmosferica è un terzo di quella al livello del mare. Non è un ambiente adatto alla vita umana, si rischia veramente di morire a ogni passo», prosegue l’alpinista più famoso del mondo. «Quarant’anni fa, nel 1978, c’era anche una barriera psicologica molto seria. L’Everest era stato scalato pochissime volte e sempre con i respiratori a ossigeno. Nessuno credeva che ce l’avremmo fatta. Anche il mio amico Oswald Oelz, alpinista e fisiologo delle alte quote, pensava che saremmo morti. A me, però, sfidare l’impossibile è sempre piaciuto». In cima all’Everest, l’8 maggio 1978, Messner e Habeler si accasciano sulla neve, e riescono a malapena a fotografarsi e a filmarsi a vicenda. Poi scendono il più rapidamente possibile, verso l’ossigeno e la vita. Reinhold soffre di oftalmia, Peter si storce una caviglia, ma riescono ad aiutarsi a vicenda. Quando arrivano ai 5400 metri del campo base, il dottor Oelz li sottopone a dei prelievi di sangue, studia la reazione dei loro corpi a un ambiente così estremo. Quando i due alpinisti tornano in Europa, è chiaro che la mancanza di ossigeno per qualche ora non ha avuto delle conseguenze durature sul loro organismo. Lo studio dell’adattamento del corpo umano all’alta quota nasce nei primi anni del Novecento sulle Alpi, anche per impulso italiano. Studi importanti, dal 1907, vengono compiuti ai quasi 3000 metri dell’Istituto Angelo Mosso sul Monte Rosa.
LA ZONA DELLA MORTEQuando, poco più tardi, si diffondono le spedizioni himalayane, si scopre che l’organismo, con una salita progressiva, riesce ad acclimatarsi fino a 7000-7500 metri. Per andare più in su, nella cosiddetta zona della morte, si ricorre all’ossigeno artificiale, ma i primi apparecchi sono troppo complicati e pesanti. A permettere di conquistare l’Everest (Hillary e Tenzing, 1953) e il K2 (Compagnoni e Lacedelli, 1954) sono i nuovi respiratori, molto più piccoli e leggeri, messi a punto per spostarsi sui bombardieri della US Air Force. «L’impresa mia e di Peter Habeler del 1978 non ha cancellato il valore degli straordinari exploit dei pionieri. Ma ha diviso l’alpinismo himalayano in due mondi separati», sorride Messner. «Oggi gli alpinisti di punta salgono l’Everest e gli altri ottomila senza ossigeno. I clienti delle spedizioni commerciali invece continuano a usarlo, e lo stesso fanno per maggiore sicurezza le loro guide. Ma questo per me è turismo organizzato d’alta quota, una cosa ben diversa dall’alpinismo autentico». Per il mondo della scienza, l’impresa compiuta da Messner e Habeler nel 1978 è un invito a studiare meglio l’adattamento dell’uomo all’alta quota.
LA PIRAMIDEQualche anno dopo, per iniziativa del geologo Ardito Desio, viene installata a 5000 metri la Piramide. Un laboratorio italiano di eccellenza, gestito dal Comitato Ev-K2-CNR e dalla National Science Academy nepalese, che ospita ai piedi dell’Everest dei ricercatori di tutto il mondo. Uno dei temi più importanti è proprio la fisiologia d’alta quota. Studiando le reazioni dei trekker che arrivano fin lì, e degli alpinisti che proseguono verso gli 8000 metri, si capisce il funzionamento del male acuto di montagna (Acute Mountain Sickness, AMS), che può uccidere attraverso un edema polmonare o cerebrale. «Il nostro lavoro non riguarda solo i camminatori e gli alpinisti», spiega Annalisa Cogo, professore di Scienze Motorie all’Università di Ferrara, che alla Piramide ha lavorato per varie stagioni. «Studiare come funziona l’apparato cardiorespiratorio in condizioni di stress è importante per aiutare gli atleti in allenamento». «Ma non è tutto. Chi soffre di problemi al cuore, o all’apparato respiratorio, spesso si trova in condizioni di ipossia anche al livello del mare» spiega la professoressa Cogo. «Studiare la fisiologia degli alpinisti e dei trekker nelle valli e sulle vette dell’Himalaya è fondamentale per curare questi pazienti».