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 2018  maggio 09 Mercoledì calendario

L’ultimo giorno di Moro

Un uomo col cane è l’unico inconsapevole testimone che vede spuntare in via Montalcini la “R4” rossa appena uscita dal “covo”, poco dopo le 7 del mattino. È targata Roma N56786, l’hanno rubata a marzo, hanno cambiato la targa, pochi giorni fa l’hanno scelta per l’ultima missione. La guida Mario Moretti, Germano Maccari è al suo fianco. Non sanno che nel bagagliaio, sotto la coperta, Moro sta ancora agonizzando, incosciente. Hanno pensato a tutto, dal calibro della pistola per non bucare la carrozzeria dell’auto, ai fazzoletti di carta sulle ferite per tamponare il sangue, alla cerata stesa sotto il corpo. Ma non hanno controllato che il condannato fosse morto. Come se le due raffiche riassumessero in sé tutta la vicenda drammatica di quei 55 giorni, la esaurissero, e poi non restasse più nulla, nemmeno una verifica, neanche per sicurezza: neppure per pietà. Nessuno dei dodici colpi ha centrato il cuore. Moro muore dissanguato in quindici minuti, mentre l’auto lascia villa Bonelli, prende via della Magliana, gira a sinistra, arriva in piazzale della Radio, passa sotto il cavalcavia verso Porta Portese e sbuca sul Lungotevere. Lentamente, in mezzo al traffico delle scuole e degli uffici, la “R4” sta portando la tragedia italiana verso il suo indirizzo finale. È un martedì febbricitante, sonnambulo, stremato. Alle 10 e mezza a piazza del Gesù si riunirà la direzione della Dc, che dovrebbe convocare il Consiglio Nazionale per discutere la linea da tenere sul caso Moro, come ha chiesto con insistenza dal carcere nei giorni scorsi il prigioniero. A casa, prima di passare dal Viminale, il ministro degli Interni Cossiga sta scrivendo la lettera di dimissioni che si porterà in tasca alla riunione democristiana, pronto a consegnarla se il partito decide di cambiare posizione e aprire alla trattativa, come ha fatto capire alla moglie di Moro e al socialista Signorile il presidente del Senato Fanfani: molti oggi attendono una sua parola ufficiale. Anna Laura Braghetti ha chiuso il box del delitto, è uscita in strada a controllare che tutto fosse tranquillo ed è tornata nel “covo”. Da solo, Prospero Gallinari sta portando fuori dalla cella la branda, il comodino, il water da campo, i cuscini, arrotola il tubo di 2 metri e mezzo che passando attraverso un buco nella porta ha fatto arrivare per quasi due mesi l’aria dal grande ventilatore esterno. Poi, col ritorno di Maccari, smantelleranno la parete di cartongesso insonorizzata e in due giorni della prigione resterà solo un foro sul pavimento, il buco del cardine su cui girava la libreria che mascherava la porta. Nessun’altra traccia del sequestro. La falsa casa, comprata dai brigatisti per diventare prigione, entra nella sua terza stagione, quella di covo numero 1 delle Br a Roma. Braghetti guarda la prigione senza quel prigioniero con cui ha convissuto 55 giorni senza che lui la vedesse mai, mentre lei lo osservava dalla spioncino nelle ore in cui dormiva, quando pregava, appoggiato a due cuscini ogni volta che scriveva, negli ultimi giorni con la testa tra le mani, seduto sul bordo del letto. Nel registratore Philips a pile c’è ancora la cassetta con la messa di domenica scorsa, Santa Flavia, due giorni prima dell’omicidio, vicino ai nastri con la musica che ascoltavano i brigatisti, Guccini, Lucio Dalla, Aznavour. Oggi pomeriggio Gallinari taglierà a strisce lo stendardo con la stella a cinque punte che stava appeso al muro della cella dietro il prigioniero, e lo brucerà pezzo per pezzo, senza pensare che nel grande incendio politico che il sequestro Moro ha appiccato al Paese sta intanto andando in cenere anche la vicenda delle Brigate Rosse. Dall’altra parte di Roma, nella casa di via del Forte Trionfale la famiglia di Moro si sente precipitare nell’oscurità delle ultime ore. L’associazione di cui fa parte Giovanni, “Febbraio ’74”, cerca di far scendere in campo la Croce Rossa come possibile soggetto terzo per cercare il filo di un dialogo ormai quasi impossibile tra i sequestratori e lo Stato, ma Andreotti non appoggia l’iniziativa, che si arena. Eleonora Moro ha aspettato per tre ore nella sede romana della Caritas, insieme con Corrado Guerzoni, una misteriosa chiamata telefonica rispondendo alla quale avrebbe potuto parlare col marito, ma era una falsa indicazione. «Quell’uomo – dice a Nicola Rana – io a questo punto non so se lo rivedremo». Ha ricevuto le ultime lettere del prigioniero da don Antonello Mennini, giovane viceparroco di Santa Lucia, amico e confessore di Moro che lo ha scelto come intermediario finale per gli addii. Le ha lette coi figli, le ha rilette coi collaboratori del marito, nello strazio delle parole dell’abbandono: «Vorrei avere la fede che avete tu e la nonna per immaginare i cori degli angeli che mi conducano dalla terra al cielo. Ma io sono molto più rozzo». «Credo non sarà facile imparare a parlare con Dio. Ma c’è speranza diversa da questa?». «Ci rivedremo. Ci ritroveremo. Ci riameremo». La moglie ha telefonato alle 11 di sera a Fanfani, scongiurandolo di fare qualcosa, ha chiamato al Quirinale il presidente Leone. Poco per volta nella casa prendono forma e peso le disposizioni che Moro dissemina nelle lettere per il dopo. Ha scritto i testamenti il 5 di aprile, li ha riscritti il 10. Ma ha dei piccoli lasciti di cui vuole essere sicuro: la biro nella vestaglia per Luca, il posacenere e il pennarello marrone nel comò per Giovanni, per Anna un topolino di metallo che lei da piccola gli aveva regalato per non far correre troppo gli aerei quando era in viaggio. Poi i richiami ripetuti alla tomba di famiglia a Torrita Tiberina: «Per la tomba c’è rischio di sicurezza. Forse converrebbe allogarmi altrove», «non disturbarti per la tomba, fa’ come vuoi», «se vedi che non potete venire a Torrita, tienimi piuttosto a Roma». Quindi preoccupazioni minori («non mancare di fare la vaccinazione antiinfluenzale», «non mi disperdere le cose da vestire», «prego lasciare unite le mie cose», «credo ci sia una buonuscita dall’Università», «sono state recuperate le borse in macchina?»). E ancora vere e proprie indicazioni quasi perentorie:
bossoli di pistola, con la capsula esplosa, una foglia verde. Bisognerebbe avvicinarsi al lunotto posteriore, guardare dentro, per notare quel plaid rossastro nel bagagliaio, che sembra coprire qualcosa. Ma a quest’ora non c’è quasi nessuno. I brigatisti chiudono il finestrino, controllano di non aver lasciato nulla a bordo, scendono, se ne vanno a piedi, con la “Simca” e con l’auto-civetta che Morucci ha spostato dal parcheggio, portando con sé la borsa con il mitra. Ognuno va alla sua destinazione, l’“operazione Fritz” è quasi conclusa, manca ancora un capitolo, ma l’operatività è finita. Domani al processo di Torino Curcio potrà rivendicare l’esecuzione, citando Lenin: «La morte di un nemico di classe è il più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi». Ma adesso bisogna disperdersi. Riattraversano il centro, dopo aver lasciato nel cuore della città il corpo dell’uomo che tutta l’Italia cerca da due mesi, con 6.296 posti di blocco nella sola capitale, 6.933 perquisizioni domiciliari, con più di 167mila persone controllate: tutto a vuoto, tutto inutile. Il posto scelto per l’appuntamento tra Morucci e Faranda è la Piramide. Lui arriva in autobus, vede lei che lo sta già aspettando. I due “postini” delle Br devono trasmettere l’ultimo messaggio, quello della morte del condannato. Devono annunciare l’esecuzione e rivendicarla, avvertendo dov’è il corpo, per guidare il ritrovamento. Moro ha chiesto soltanto un’ultima cosa a Moretti: dopo che tutto è compiuto, venga avvertita per prima la famiglia. Devono farlo in fretta, prima che qualcuno scopra per caso il contenuto di quell’auto in via Caetani. Ma devono stare attenti di non essere individuati mentre telefonano. Vanno ancora una volta – l’ultima – alla stazione Termini, contando sulla confusione, sulla folla, sul numero di cabine. Individuano quella con la posizione più defilata, con la visuale più ampia per il controllo di copertura, che tocca a Faranda. Moretti ha preso due numeri dall’agenda di Moro, nella prigione, li ha passati ai “postini”. Sono due assistenti universitari, forse i loro telefoni non sono intercettati, soprattutto il primo, quello del professor Fortuna. Ma il numero non risponde, non c’è nessuno in casa. Morucci esce dalla cabina, camminano un po’, tornano indietro, lui riprova: niente. Dopo mezz’ora un ultimo tentativo, a vuoto. Sta passando troppo tempo, si deve affrettare il ritrovamento, bisogna passare al secondo numero in agenda. «È lei il professor Franco Tritto?». «Chi parla?». «Il dottor Niccolai». «Chi? Voglio sapere chi parla». «Brigate Rosse»: silenzio. «Dovrebbe dire questa cosa alla famiglia, dovrebbe andare personalmente e dire questo: adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà ritrovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro». «No, se può ripetere, per cortesia…». «Non posso ripetere, guardi. Allora, lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. Lì c’è una “Renault” rossa, i primi numeri di targa sono N5». Tritto piange, si sente la voce che si spezza al telefono, passa la cornetta a suo padre. Morucci ripete il messaggio, si assicura che sia stato inteso bene, che l’assistente porti la comunicazione a casa Moro, poi saluta: «Arrivederci». Tritto va in via del Forte Trionfale, dove Moro era uscito per l’ultima volta di casa il 16 marzo, e dove adesso arriva la notizia della morte, 55 giorni dopo. Ma il numero del professore era sotto controllo, la telefonata è registrata, appena finito l’ascolto parte l’allarme alla polizia e ai carabinieri. Le pattuglie svoltano in via Cateani, una dietro l’altra, i curiosi guardano dentro quella strada anonima del centro, attraversata dai lampeggianti. Gli agenti vedono la macchina rossa, controllano la sigla della targa: è quella. Poco lontano, sta incominciando la riunione della direzione Dc, con l’intervento del segretario Zaccagnini, poi la sfilata dei leader al microfono nella grande stanza dove tra poco arriverà la notizia che fulminerà il partito e il Paese, sussurrata dal capo ufficio stampa Cavina all’orecchio del segretario. Ma non è ancora il momento, tutti ascoltano le parole di Fanfani, ma nel lessico democristiano del presidente del Senato non arriva nessuna apertura. Nella prigione smontata di via Montalcini la televisione non è accesa, non c’è più niente da capire. Precauzioni, cancellazioni, sostituzioni mascherano via via le tracce di due mesi di sequestro. Braghetti regala a sua zia Gabriella la grande cesta di vimini che ha trasportato Moro dal “covo” al garage. Le armi sono in una sacca da tennis e il manico svuotato di una racchetta avvolge e nasconde la canna di un fucile. Un caricatore è mimetizzato dentro un pacchetto regalo. Solo il ciclostile resiste, nascosto dietro la porta sempre chiusa del bagno di servizio. Adesso l’ultimo gesto: Prospero Gallinari brucia in casa l’agenda telefonica di Moro, utilizzata dai “postini” per chiamare i destinatari delle lettere, foglio per foglio. Deve sparire. In via Caetani arriva Antonio Cornacchia, che comanda il nucleo investigativo dei carabinieri, e ha ricevuto l’allarme dalla radio dell’auto. Scende, si avvicina, controlla: è davanti alla “Renault”. Avverte il comando via radio, gli dicono di aspettare l’arrivo degli artificieri. Ma Cornacchia gira intorno alla macchina, guarda dentro, vede quel plaid dietro, gli sembra che copra qualcosa. Aspetta, guarda ancora, poi decide. Prende dalla sua auto un piede di porco, e fa saltare la chiusura. Alza il portellone posteriore, con una mano muove la coperta. Appena spostata lo vede: Moro è lì dentro, nel bagagliaio, con gli stessi vestiti di quel mattino di marzo. Le gambe piegate indietro, la mano destra sul petto, la testa appoggiata alla ruota di scorta. La barba è cresciuta: come se il corpo del condannato volesse continuare a vivere. 10. Fine. Le altre puntate sono uscite il 9, il 16, il 23 e il 30 marzo; il 6, il 13, il 20 e 27 aprile e il 4 maggio