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 2018  maggio 09 Mercoledì calendario

L’ira di Vincent Lindon

Così i francesi definiscono chi parla troppo senza pensare alle conseguenze: “grande gueule”. Non c’è, in italiano, una traduzione efficace. Spaccone? Chiacchierone? Non rendono l’idea fino in fondo. Per i francesi una “grande gueule” è pericolosa e un po’ imbarazzante. Noi sopportiamo meglio, apprezziamo perfino. In Italia è quasi uno sport nazionale. Vincent Lindon va a ruota libera. Dice quello che pensa e delle conseguenze se ne frega. È imprevedibile e, se di cattivo umore, può essere feroce. Oggi è in buona. Pur essendo uno degli attori più straordinari della sua generazione, il talento di Lindon ha avuto un riconoscimento tardivo. Solo tre anni fa a Cannes il primo premio della sua carriera: quello del miglior attore per La legge del mercato di Stéphane Brizé. Ora è al quarto film con il regista. Il nuovo si intitola In guerra, in concorso martedì a Cannes. Lindon è Laurent Amédéo, sindacalista, portaparola dei 1.100 operai di una fabbrica che sta per chiudere uno stabilimento e licenziare i suoi impiegati. Ancora un film sulla crudeltà del liberalismo e la sofferenza della classe operaia. Ancora un film con Brizé. «Di solito, quando giri molto con lo stesso regista, si crea una specie di compiacenza. Con lui no. Brizé è sempre più esigente, sempre più severo» dice Lindon. L’attore ha già cambiato poltrona: la prima offriva un taglio visivo che non gli piaceva. L’inquietudine è parte importante del suo fascino. Come quell’aspetto da operaione cuore-in-mano, capitato chissà perché a uno di una famosa famiglia borghese e intellettuale. La collera del protagonista di La legge del mercato era tutta interiorizzata; quella del sindacalista Amédéo è continua, violenta. En guerre è talmente reale da somigliare a un documentario. Seguivate una sceneggiatura? «Sì, e molto precisa. Ogni giorno, prima delle riprese, Brizé ci spiegava le scene. I miei compagni di set sono veri sindacalisti, veri operai. Nessuno tranne me è un attore professionista. L’argomento del film era la loro realtà. A fine giornata ci accorgevamo che la sceneggiatura era stata rispettata nel dettaglio. Tutto scaturiva in maniera naturale. Per ogni scena, dai due a un massimo di 4 ciak». Come si recita con attori non professionisti? «C’è un leader e gli altri seguono. Il leader ero io. Ma lo scambio tra la loro conoscenza dei problemi e la mia del mestiere di attore è stato continuo. Il film è la loro vita, e tutto quello che racconta è vero, verificato, realmente accaduto». Ma il capo sindacalista è solo. Fa ancora la spesa alla moglie che lo ha lasciato. «È impossibile restare vicino a un uomo abitato da questa collera. Impossibile vivere con uno sempre in guerra. A una donna non resta più niente». Brizé dice che voi due avete in comune quella collera. È vero? «Verissimo». Lei potrebbe, al limite, essere come Laurent Amédéo? «Perché al limite? Brizé ha messo nel film cose che mi appartengono. Io adoro convincere, mettere d’accordo, coinvolgere, organizzare. Sono collerico, furioso, mi arrabbio per un nulla. Mi immischio di tutto, anche quando un cosa non mi riguarda. Lui ha catalizzato, riciclato il mio nervosismo e l’ha messo in un personaggio preciso per un’azione precisa». Dopo il giubbotto del sindacalista lei vestirà le marsine e le parrucche settecentesche del “Casanova” di Jacquot. Un salto di secoli. «Mi trovo benissimo come Casanova e, nel film porto poche parrucche. Jacquot racconta l’episodio della Charpillon, a Londra verso il 1764, quando Casanova è già evaso dai Piombi. Lei lo fa diventare pazzo. Gli promette che gli si concederà nel momento in cui lui smetterà di desiderarla». La storia era anche nel Casanova di Fellini. Donald Sutherland inseguiva la prostituta Charpillon-Carmen Scarpitta. Nel film di Jacquot c’è anche Valeria Golino. In quale ruolo? «Teresa Imer, divenuta Madame de Cornelys, ex amante veneziana e madre di due dei suoi figli. Una specie di avventuriera che Casanova reincontra a Londra e nel cui salotto animerà molte feste. Valeria è geniale in quel ruolo». Sia il Casanova di Jacquot che il sindacalista di Brizé perdono la loro battaglia. È a suo agio nel ruolo di un perdente? «È una domanda che non mi pongo. Anche nella vita non parto mai alla conquista di qualcosa o di qualcuno se non dico a me stesso: ce la farai. Non entro in competizione se penso che non ne valga la pena. Per esempio, quando ero un giovane attore e volevo fare un film con un certo regista sapendo sin dall’inizio che non mi avrebbe scelto, mio padre mi diceva: il “no” già ce l’hai, vai a cercare il “sì”. Ho fatto così tutta la mia vita».