la Repubblica, 8 maggio 2018
Intervista a Wilbur Smith
La sua Africa non è quella rosso sangue delle guerre infinite, dell’apartheid, della miseria e dello sfruttamento. La sua Africa ha il verde, il marrone e l’oro dei paesaggi sterminati, della natura impervia e bellissima, del confronto con i grandi mammiferi, della caccia praticata – sostiene – «con un codice d’onore». È così che Wilbur Smith, dalla sperduta cittadina dello Zambia in cui è nato, è diventato lo scrittore d’avventura più amato e venduto al mondo. Una ricetta che ora riversa a piene mani in Leopard Rock, da giovedì in libreria per HarperCollins Italia. Un memoir familiare più adrenalinico di qualsiasi fiction: «Posseggo una vecchia foto sbiadita – racconta l’autore a Repubblica – ci sono io ragazzino con mio padre, lui col naso gonfio e ferito, io con uno dei suoi cappelli e un’espressione che voleva essere truce: ciascuno di noi due tiene tra le mani la testa di un leone morto, erano di un branco che la notte precedente aveva tentato di sbranarci. Una scena che ho riproposto innumerevoli volte, e in tanti modi diversi, nei miei romanzi. Come può immaginare, ha avuto un impatto enorme su di me». Per questo dopo tanti libri di fantasia ha deciso di scrivere sulla sua vita? «Nel 2011 ero stato invitato al Festival di Massenzio a Roma, e dovevo scegliere una lettura che sarebbe stata ascoltata da migliaia di persone, all’ombra del Colosseo: decisi di parlare della storia di mio padre, di come salvò la vita mia e del resto della famiglia da un branco di leoni mangiauomini che avevano preso di mira il nostro campo, nel corso di un safari. Quella foto di cui parlavo prima fu scattata da mia madre proprio lì, la mattina successiva. Mio padre mi ha insegnato tanto: sulla vita, sugli uomini, sugli esseri viventi, gli animali, gli uccelli, le piante. Ho capito che è lui l’origine di tutte le mie avventure. Finii lo speech dicendo: “Un giorno scriverò di lui”. Quel giorno è arrivato, e ora condivido questi ricordi con voi». Insieme a suo padre l’altra grande protagonista è l’Africa del Sud, dove è nato e vissuto. Un’area che sembra non trovare pace… «Il Sudafrica sta attraversando un periodo travagliato. Spero che lo spirito di Madiba (Nelson Mandela ndr,) guiderà il nostro Paese fuori dall’emergenza, verso un futuro luminoso. È uno splendido posto in cui vivere, con gente dalle qualità straordinarie. E Cape Town per me resta la prima scelta: il gioiello di una corona unica, speciale». Nel libro sostiene che fino alla liberazione di Mandela i suoi romanzi hanno subito all’estero un boicottaggio ingiusto. Definisce il grande leader scomparso un eroe, ma rifiuta le descrizioni manichee della società sudafricana: bianchi tutti cattivi, neri vittime. «Sì, le cose sono più complicate. Non importa il colore della pelle, se sei rosso, marrone, giallo o verde: alcun persone sono orribili, con varie sfumature di malvagità. Ma ci sono tante persone che eroicamente fanno del loro meglio, ogni giorno. E molte vivono proprio nelle township» (cioè nei ghetti neri). A proposito di eroi: non è che se ne vedano tanti in giro. «È la letteratura che da sempre sforna i nostri eroi preferiti, dai tempi di Omero e di Beowulf. Ma poi, invariabilmente, accade che la vita reale riesce a fare ancora meglio». Torniamo all’Africa. Non teme che i suoi libri la facciano apparire come il classico maschio alfa bianco – tutto fucili, caccia grossa e latifondi in un continente a maggioranza nera? «Leopard Rock era il nome della grande riserva di caccia in cui sono cresciuto per molti anni, situata nella zona del Gran Karoo (nell’entroterra sudafricano, ndr), abitata da animali come antilopi, alci, kudù, cervi, leopardi di montagna. Era un posto in cui noi ci prendevamo cura di queste magnifiche creature e delle persone che si occupavano di loro. Un inno alla bellezza della natura. Non riesco a pensare a niente di più magico: per questo ho intitolato così il libro». Ma perché per lei la caccia è così importante? «Avevo otto anni quando mio padre mi regalò il mio primo fucile, un Remington 22. “È tuo adesso, Wilbur – mi disse – ma c’è un codice che devi rispettare. Un sistema d’onore. Devi seguire le norme di sicurezza. Devi sparare in modo pulito. E uccidere solo ciò che mangi”. Questo spiega molto, giusto?». Allora come si sente in un mondo (almeno quello occidentale) in cui la maggioranza è contro la caccia, e tanta gente è vegana? «Posso capirlo. Il regime alimentare è cambiato, nel corso degli anni, ci siamo abituati a badare di più a come ci nutriamo e alla nostra salute. Mentre quando sono cresciuto io negli anni Trenta, in un territorio che ora è nello Zambia, accadeva il contrario: non c’erano macellerie né supermercati. Se volevi mangiare proteine, dovevi andare a caccia. È una spiegazione semplice». Malgrado queste origini, e una figura paterna così energica e “fisica”, ha deciso di guadagnarsi da vivere con le parole. «Mio padre era un uomo d’azione, ma mia madre mi ha contagiato l’amore per i libri. Quando è arrivata la maturità, ho capito che il mio lavoro è una simbiosi tra i loro due mondi e i loro opposti interessi. Scrivo perché ho un profondo desiderio di raccontare storie su ciò che ritengo importante, su quegli aspetti della vita che sento vicini al mio cuore. E ciò che sento vicino al mio cuore è l’Africa. La fascinazione per certi aspetti dello stile di vita africano». Fa molte ricerche sulla storia e i costumi del Continente? «Nei miei oltre cinquant’anni da scrittore ho stabilito una regola fondamentale: sperimentare la vita al massimo attraverso le mie ricerche e passare attraverso tutto ciò che vivono i miei personaggi. Dal fare escursioni in severe condizioni di disidratazione nella Rift Valley del Kenya, al remare sul Nilo nello stile degli antichi Egizi, all’evitare un attacco di squali durante un’immersione alle Seychelles. E solo dopo lascio andare l’immaginazione, dalla mia scrivania di Cape Town». Ha 85 anni vissuti pericolosamente e continua a lavorare: qual è il suo segreto? «Il mio obiettivo è scrivere fino al giro di boa dei cento anni, vivendo con lo stesso entusiasmo che infondo nei miei personaggi. Voglio essere ricordato come qualcuno che ha fatto divertire milioni di lettori e che facendolo ha passato del tempo fantastico. Se mi guardo indietro, non ho alcun rimpianto. Anche adesso, mentre qui da me l’autunno sfuma verso l’oro, il marrone, l’arancio, mi sento benissimo. Voglio scrivere fino all’ultimo respiro. E anche dopo, dalla mia tomba uscirà fuori un artiglio ossuto e comincerà a scrivere».