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 2018  maggio 08 Martedì calendario

In morte di Ermanno Olmi

Maurizio Crippa per Il Foglio
Il suo primo premio (della Critica a Venezia, 1961), era stato per Il posto, storia di un ragazzo alle prese col primo lavoro, con la scoperta già intristita dell’azienda, del “posto fisso” come mito e condanna che alla fine si materializza, ma è una condanna, nella morte di un vecchio impiegato che libera la scrivania. Il tappo generazionale è sempre esistito, il rifiuto del lavoro era di là da venire, ma era già tutto dentro agli occhi dei giovani, per chi li sapesse guardare. Il film del debutto, due anni prima, racconta anche quello di un ragazzo al primo lavoro, ma nel silenzio innevato e sacro delle montagne, guardiano di una diga. Il tempo si è fermato doveva essere un documentario per l’Edisonvolta, la società in cui lavorava come documentarista industriale, ma divenne un lungometraggio con attori non professionisti e il suono in presa diretta. Fino a Lunga vita alla signora!, a Il mestiere delle armi, ha spesso avuto come punto focale del suo cinema l’abbrivio dell’età adulta, dove il senso di tutto si concentra, col suo disincanto. Basterebbe questo per dire quanto stretta sia la definizione di “regista contadino”, che pure gli avevano cordialmente affibbiato, per Ermanno Olmi, morto ieri a 86 anni ad Asiago, sull’altopiano che lo aveva adottato tra i boschi del suo amico Mario Rigoni Stern. Colpa dell’Albero degli zoccoli, Palma d’oro 1978, del suo cinema di spazi naturali e passi lenti ad altezza d’uomo. Olmi è uno dei pochi cineasti italiani che abbiano saputo raccontare il passaggio dalla campagna alla industrializzazione, da un mondo sacrale a una società pienamente secolarizzata. Ma diverso da Pasolini, lontano dalle sue trasfigurazioni rinascimentali, lui ragazzo della Bovisa operaia, ragazzo della pianura agricola di Treviglio. Non solo nei bellissimi documentari degli anni 50, cinegiornali sull’attività dell’azienda elettrica in teoria, ma in realtà già indagini umanistiche e parabole morali. Quel che riusciva di fare a Olmi, nei suoi film più belli, era tenere gli occhi in presa diretta sulle cose, le persone. Non un “punto di vista” d’autore – quando provava a inerpicarsi nella metafora, in un simbolo che non fosse un elemento naturale, un colpo di vento, gli veniva tutto più complicato. Lo sguardo, non il punto di vista, era la cifra di Olmi. Lo “splendore del vero”, come diceva Godard del cinema di Rossellini. Il nucleo di una lunga carriera di artigiano, modesto e caparbio come tutti gli artigiani, che si è sempre fatto guidare dagli occhi per cercare l’essenza, che è sempre un passo in là, o più sotto, o più dentro.
C’era la sua religiosità, la sua spiritualità, in questo? A suo modo. Nella parabola partita dal Papa Giovanni di E venne un uomo per approdare alla “eresia marcionita” – come sillabava eccitato don Gianni Baget Bozzo in un indimenticabile (per me) pomeriggio di cinema a Genova – e che era, secondo don Gianni, l’essenza di Centochiodi, il film delle Bibbie (inutili) inchiodate al pavimento. Ma della sua fede, non si può e non si deve giudicare. È più interessante notare, volendo, che la sua parabola personale somiglia molto al percorso di tanto cattolicesimo conciliare, a tanti suoi dubbi.
In un recente libro-dialogo, parlando dei suoi ultimi lavori, aveva detto: “Ho girato dei film che sono più delle icone che dei film realistici”. Ed è vero: icone, nel senso delle immagini sacre, che sono più di ciò che mostrano. Dal Mestiere delle armi fino all’ultimo Torneranno i prati, dove l’immagine più bella è il larice che brucia nella neve, colpito da una bomba. La natura, forse lo Spirito. Che si rivelano agli occhi, persino al cinema, quando cercano lo splendore del vero.

Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera
Ermanno Olmi è volato via, lasciandosi dietro una scia di ricordi, di immagini, di amore. Il nonno Anselmo, che «quand’era giovane si arrampicava su su fin sulla cima d’un eucalipto e ondeggiava nel vuoto cantando a squarciagola alla sua Bettina». E la zia stramba che s’era inventata ridendo una preghiera satanella in stretto bergamasco: «Sö ol sòcol / zò ol sòcol / sö ol sòcol / zò ol sòcol», su lo zoccolo, giù lo zoccolo. E lo scolaretto che, dando ragione a Lev Tolstoj e alla sua convinzione sulla purezza della lingua dei bambini («ah, potessi scrivere come loro!») compose un giorno la poesia perfetta: «Niente alberi niente fiori. Niente fiori niente ciliegie. Niente ciliegie niente bambini».
Il grande regista è morto ad Asiago, dove aveva deciso di vivere fin dal ‘59 in una casa un po’ fuori mano verso il monte Zebio, a ridosso del bosco di scoiattoli e caprioli. Era andato lì per lavorare con Mario Rigoni Stern alla sceneggiatura del film Il sergente nella neve che poi non avrebbero più fatto: «A un certo punto, dal basso di una collinetta, sopra un denso strato di nebbia si apre un squarcio di luce, un lucore come d’ incanto – scriverà anni dopo Paolo Di Stefano —, Olmi alza gli occhi, raccoglie un sasso dal selciato, lo tira verso l’alto e lo lascia cadere poco più in là: “Se un giorno mi sposerò e avrò figli, farò la casa lì”. Anche Rigoni si china a prendere una pietra, la butta a pochi metri e dice: “Vegno anca mì, in piassa massa confusiòn”». Troppa confusione. Tanto più per quelli che, teorizzerà l’Ermanno (coinvolgendo nello stesso progetto, in una terza casa, lo sceneggiatore e storico del cinema Tullio Kezich), amano i silenzi: «Che bello se avessimo l’umiltà di accettare il silenzio come la forma più alta di comunicazione. Ci sono silenzi, come dice il teologo Raimon Panikkar, che valgono come tutte le parole del mondo».
Il silenzio che sperava di trovare nella grande steppa russa, dove si era incaponito di andare per girare il nuovo film che aveva in mente sulla grande pianista russa Marija Judina e sulla notte in cui Stalin, sentito alla radio il suo «Concerto K 488 di Mozart» fece telefonare per aver subito il disco «ma il disco non esisteva e così, per non urtare il despota, decisero di farlo apposta recuperando nella notte musicisti e maestranze e lavorandoci fino all’alba».
Il tiranno, riconoscente, mandò all’artista ventimila rubli. Un’enormità. «La ringrazio – rispose Marija —. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della chiesa in cui vado». L’Ermanno aveva deciso: «Vado». A 86 anni, malandato, in treno e in camper. In volo no? «Devo sentire l’odore della steppa».
Non ce l’ha fatta. Nato a Bergamo («in un quartiere chiamato Malpensata…») ma cresciuto alla Bovisa e a Treviglio («chiedevo: perché ho i capelli così rossi? “Sei nato sotto a un pomodoro”»), era figlio d’un ferroviere ucciso da una bomba quando lui era ancora ragazzino e di una donna di grande spirito e ironia: «Mi prendeva in giro: “Voglio più bene a te che a una nidiata di topi”». Studente così distratto da lasciare gli studi (si sarebbe rifatto con un po’ di lauree ad honorem) ma lettore onnivoro, cominciò a lavorare da «fornaretto». «Si cominciava a mezzanotte e si finiva a mezzogiorno. Per dodici ore di lavoro mi davano un chilo di pane. Dirlo adesso sembra una miseria. Allora era una grazia della Provvidenza. Ci vuole rispetto, per il pane».
Anche in Torneranno i prati, l’ultimo film sulla Grande Guerra girato in Val Formica nell’inverno 2014 tirando moccoli al mulo che affondava nella neve («Non ci sono più i muli d’una volta! Quelli salivano su coi cannoni. Questi sono cocchi di mamma. Mollaccioni!») c’è un omaggio al cibo della Provvidenza. Il soldatino che prima d’uscire dalla trincea per esporsi alla morte bacia un pezzo di pane e se lo infila nella giubba. Sul cuore.
Assunto ventenne alla EdisonVolta, ci restò vent’anni. In gran parte passati all’«organizzazione del tempo libero». Dove cominciò a girare documentari industriali. Via via più belli. Pieni di poesia. Fino al primo film, Il tempo si è fermato. Poi Il posto, dove la parte principale era affidata a Loredana Detto, che sarebbe diventata la compagna di tutta la vita e la madre dei suoi tre figli. Donna bella, minuta e forte. Vicina sempre, fino all’ultimo.
Girò L’albero degli zoccoli, forse il suo capolavoro poetico col quale conquistò Cannes e la fama mondiale, partendo dai racconti che leggeva ai suoi bambini. Parlavano della sua infanzia e «loro ascoltavano queste storie come se appartenessero a un mondo lunare: le veglie nella stalla, il lavoro, il rapporto d’affetto con gli animali. Ne erano estasiati». A chi levava il sopracciglio parlando d’«una operazione nostalgica» diceva che sì, narrando di storie «sue» le accarezzava «con un po’ di «tenerezza» ma «nostalgia non significa rimpianto». Se non per la «profonda solidarietà tra gli uomini» di quel mondo contadino perché, «come diceva Giovanni XXIII, solo i poveri sanno capire i poveri».
Catalogato negli schemini come «regista cattolico», forse per i temi che toccava o le amicizie cui teneva come quella con Gianfranco Ravasi, rifiutava l’etichetta: «Ho sempre fatto una gran fatica a credere in Dio. E con Dio ho anche barato, ponendogli delle domande e poi dandomi delle risposte da solo, risposte che erano come quelle dei bambini quando giocano con la propria coscienza. Ma con Gesù non ho mai potuto barare perché, al di là del fatto religioso, la testimonianza di Cristo (non parliamo del Figlio di Dio ma dell’Uomo) non fa che imbarazzarmi continuamente. Non riesco a togliermi dai piedi uno come Gesù Cristo, che ha compiuto dei gesti con cui dobbiamo fare i conti tutta la vita. È la vita che mi aiuta a concepire il desiderio di Dio, perché non potrei neppure concepire Dio se non amassi la vita. La grande gioia della vita umana qual è? Che l’uomo è la sola creatura in grado di stupirsi di fronte alle meraviglie del mondo. La gioia di vivere, questo stupore, ecco cosa mi aiuta a credere in Dio».
Amico del cardinale Martini, al quale dedicò l’ultimo documentario scritto con Marco Garzonio, profondo ammiratore di Papa Francesco, spiegava che se avesse fatto un film su Gesù gli sarebbe piaciuto ispirarsi a don Milani. Che immaginava «un Cristo che per tutto il film non si capisse dove fosse e spingesse lo spettatore a cercarlo per poi trovarlo solo alla fine». Amava Milano ma non la riconosceva più: «Prova a gridare in Piazza del Duomo: “Sono innamorato!”. Ti ignorano».
Quando lo colpì il male, quello che Curzio Malaparte chiamava «lo stramaledetto», reagì come meglio poteva. Raccontava della sua locanda preferita e dell’amica Loriana che «quando ha saputo che non potevo esser da lei per l’ultimo dell’anno si è messa a piangere e ha detto: “allora gli mando a casa la gallina bollita”». E poi del mitico Baffo di Cesuna che diceva sempre «fin che c’è vita c’è vacanza» e fece stampare il proprio necrologio «Non potendo partecipare personalmente al mio funerale…». E del vecchio Toni Lunardi, detto «Toni mato», che «sapeva sì e no leggere e scrivere ma aveva una capacità omerica di narrare storie fantastiche». E di un viaggio aereo di Ignazio Buttitta rotto da grandi risate: «Era Buttitta che parlava con un mongolo. Lui parlava solo siciliano, l’altro solo mongolo. E si divertivano da matti. Non è la squalifica della parola: è riconoscere che la parola ha dei limiti. E oltre questi limiti c’è la poesia».
Era un uomo buono. Gentile. Che si faceva voler bene. Quando sentì avvicinarsi la fine e arrivò l’inverno, confidò: «Sento scorrere dentro la mia vita. Ma sono sereno». Sperava di andarsene come ne La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth: «Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte tanto lieve e bella». Non gli è stato concesso. Dopo mesi spossanti di flebo e sospiri, all’arrivo della primavera quando i pascoli asiaghesi cominciano a vestirsi di giallo, era riuscito a farsi portare sul terrazzo dietro casa. Voleva vedere se dal boschetto sarebbe sbucato a cercarlo, zampettando sulla staccionata, il solito scoiattolino. Mancherà anche a lui.

Irene Bignardi per la Repubblica

IRENE BIGNARDI

Maestro di un cinema eccentrico e popolare, l’artista è morto a 86 anni a Asiago, a due passi da quell’altopiano in cui aveva ambientato il suo ultimo film “Torneranno i prati”. Funerali in forma strettamente privata
Il maestro del cinema ci ha lasciato troppo presto, anche se dopo una lunga e bella vita. Era rimasto, a 86 anni, dopo i successi e i riconoscimenti internazionali, le Palme e i Leoni, il ragazzo della Bovisa che ha raccontato in un suo bel libro “quasi” autobiografico. Era rimasto semplice e pronto a lasciarsi sorprendere dalle cose, umano, popolare, gentile, severo nel senso migliore della parola. Un personaggio raro e singolare: raro come persona e raro come cineasta, protagonista di una carriera fuori norma, autore di un corpus di film “eccentrici”, “maestro” di una scuola e di una generazione di registi che da lui hanno imparato o con lui hanno respirato il far cinema secondo un modello e uno spirito speciali.
Ermanno Olmi, nato a Bergamo, figlio di un ferroviere socialista nell’Italia grigia del fascismo, cresciuto prima a Treviglio poi nella periferia proletaria di Milano (la Bovisa), allevato in una famiglia profondamente cattolica, al non conformismo popolare. Un ragazzo che ogni estate riscopriva le origini contadine della sua esistenza milanese tornando al paese e riscoprendo la realtà da cui proveniva. Un giovane uomo che riconosce presto le sue passioni (studiando all’Accademia di Arte Drammatica di Milano), ma deve cominciare a lavorare molto presto, umilmente, da garzone di fornaio, finché non approda alla Edisonvolta. Dove, miracolo dei tempi andati e del fiuto dei suoi superiori, gli viene affidata l’organizzazione delle attività ricreative dei dipendenti.
È così che tra il 1953 e il 1961 il giovane Olmi realizza oltre quaranta documentari: da La diga sul ghiacciaio a quello che, nel 1959, diventa il suo film di debutto sul grande schermo, Il tempo si è fermato, dove già si vedono i tratti fondamentali del suo cinema: umanità e un rapporto mai paternalistico, sempre empatico, con la gente semplice. Gli stessi elementi che si ritrovano due anni dopo in Il posto, prodotto assieme al gruppo di amici della società “22 dicembre” (tra cui l’amico di sempre Tullio Kezich), poi in I fidanzati (1963), sul cui set nasce con una giovane attrice, Loredana Detto, l’amore di una vita, quindi nel ritratto di Papa Giovanni di E
venne un uomo (1965), infine, in L’albero degli zoccoli: il poetico, sorprendente, durissimo ritratto di vita contadina accolto come un capolavoro, che conquistò la Palma a Cannes 1978. Suscitando non poche polemiche (com’era inevitabile in tempi di schieramenti ideologici molto tesi) che dipinsero Olmi come un portavoce della destra cattolica, un “democristiano” poeticamente conservatore. Lui, che quando gli fu chiesto di etichettarsi, si definì “aspirante cristiano”.
L’albero degli zoccoli decretò il successo per un cinema fuori dalle regole e dalle mode. Sempre schivo e solitario, Olmi si ritirò ad Asiago, fondando a Bassano la sua scuola, “Ipotesi cinema”, diresse Cammina cammina, qualche spot, qualche documentario...
Ma venne colpito da una rarissima malattia delle fibre nervose che lo tenne lontano dalla vita e dal lavoro per molti anni.
Fino al ritorno in scena, trionfale, prima con Lunga vita alla signora!
(Leone d’argento a Venezia 1987), poi con La leggenda del santo bevitore, dalla novella di Joseph Roth, Leone d’oro 1988.
Dopo una parentesi meno felice con Il segreto del bosco vecchio, da Buzzati, interpretato da Paolo Villaggio, e con la Genesi, film di pauperistica semplicità ispirato al libro della Bibbia, Olmi nel 2001 dirige un nuovo capolavoro, Il mestiere delle armi: un grande, semplice, emozionante film sui disastri della guerra acclamato in tutto il mondo. È il primo pannello di un trittico in cui si concentrano tutti gli umori, l’etica, la nobiltà, il messaggio morale del cinema di Olmi, aspirante cristiano: e dunque ecco Cantando dietro i paraventi, dove una storia di pirati cinesi è la tela di fondo per raccontare l’orrore dell’avidità e il bisogno di pace, e poi Centochiodi, la sua personalissima parabola sullo spirito evangelico oggi.
Doveva essere l’ultimo film narrativo. O così aveva annunciato il regista minacciando di passare per sempre al documentario, quasi che la spinta narrativa si fosse esaurita. Da questa decisione è nato Terra madre. Ma anche il grande Ermanno si è smentito: e nel 2014 gira Torneranno i prati ambientato durante la Grande Guerra nel suo altopiano di Asiago. L’anno scorso l’ultimo lavoro: il documentario su Carlo Maria Martini Vedete, sono uno di voi. La famiglia ha annunciato funerali privati.

Gianfranco Ravasi per la Repubblica
Avevo 17 anni e proprio nel seminario milanese ove compivo gli studi liceali ci avevano proposto il primo film di Ermanno Olmi, Il tempo si è fermato. Ero rimasto conquistato soprattutto dai silenzi che percorrevano quelle sequenze in bianco e nero, silenzi in verità «bianchi», cioè colmi di parole implicite, ben più incisive delle poche frasi scambiate dai due protagonisti, mentre il ticchettio di una sveglia scandiva il colare lento del tempo. Il filo della filmografia di Olmi ha accompagnato da allora la mia vita e fin dagli inizi ci fu sempre la speranza di incontrare questo straordinario autore che la Garzantina «universale» definiva in sei parole: «autore di film elegiaci e introspettivi di rigorosa moralità». L’incontro è avvenuto anni dopo, nel 1983, in occasione della presentazione di un’opera dalla metafora ambiziosa e forse non pienamente perlustrata, il Cammina cammina che metteva in scena quei pellegrini dell’Assoluto che sono i Magi del Vangelo.
Ci scambiammo, allora, solo poche parole. Non avrei pensato che da quel piccolo germe sarebbe nata una delle amicizie più preziose e importanti della mia vita. Un’amicizia fatta — come in quel primo film — anche di silenzi e di lontananza, di scarni scritti e di telefonate. Eppure, quando stiamo insieme e parliamo, è come se abitassimo nello stesso palazzo e il discorso riprendesse l’interruzione di poche ore prima.
Il filo della nostra consuetudine di pensieri, di sentimenti, di consonanze è stato, perciò, sempre teso e diretto, affidato in particolare ai temi spirituali, morali e anche a quelli teologici più ardui. Ogni nostro incontro ha conosciuto dunque tutta l’intensità della riflessione, ma anche tutta la lievità della spontaneità, persino dell’ironia.
Tanti hanno riconosciuto a Ermanno una straordinaria bontà che gli è quasi strutturale, illuminata da quel suo sguardo così chiaro e luminoso. Tuttavia, le questioni che egli ininterrottamente ha gettato sul tappeto erano roventi, ci si scotta le mani e le menti a trattarle, generano reazioni diverse (si pensi a Centochiodi e al Villaggio di cartone). All’amico comune Sergio Zavoli, nel Diario di un cronista, aveva confessato: «Ogni giorno la fede e l’amore si devono conquistare attraverso una lotta col dubbio. La vittoria sul dubbio è la sola, vera affermazione del credere». Credere e amare, le due stelle fiammeggianti del cielo umano e artistico di Olmi, sono due avventure dell’anima che coinvolgono però carne e sangue, che inquietano prima di consolare, che esigono prima di donare, che lacerano prima di esaltare. Piaceva a Ermanno la frase che un giorno mi aveva detto lo scrittore francese Julien Green: «Finché si è inquieti, si può stare tranquilli». Un’inquietudine tipicamente agostiniana che non è frenesia ma percorso su un sentiero d’altura, sul crinale di quei monti tanto cari al regista, tra i quali spicca però il Moria di Abramo e del sacrificio del figlio Isacco, con un Dio misterioso che incombe con la sua indecifrabile apparente crudeltà, ma che alla fine si rivela come l’unico Salvatore. Per questo motivo Olmi non sempre è stato compreso da chi usa solo gli stampi rigorosi e rigidi dei teoremi teologici o filosofici, come non lo è stato da chi lo riteneva solo il cantore «elegiaco e introspettivo» del dolce passato o dei sentimenti puri. A lui mi sembra ben adattarsi una considerazione che anni fa mi fece un altro grande della nostra cultura contemporanea, Carlo Bo: «Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un altro modo, fra tanti, di non rispondergli».
Ermanno ha cercato, invece, una risposta «costosa», che si tira fuor dall’anima e dalla carne, che duella col dubbio, che coinvolge l’eterno e l’infinito ed è, quindi, di sua natura «in-finita».
Con questo spirito, dopo che io ero stato trasferito da Milano a Roma, abbiamo voluto tentare — con un altro comune amico, Claudio Magris — una sfida che non ha avuto approdo.
Era l’aspirazione a dar vita non all’ennesimo prodotto cinematografico su Gesù, ma a un racconto visivo che unisse storia e mistero, umanità e trascendenza, documento e contemplazione, partendo dal Vangelo di Marco.
Di questo progetto sono rimasti solo i dialoghi che ci scambiavamo quando lui scendeva a Roma, oppure quando a tavola condividevamo amicizia e idee.
Ermanno mi sorprendeva continuamente con le sue intuizioni che diventavano già immagini, con la passione delle sue domande e la verità della sua ricerca. Egli infatti — come è accaduto ai grandi registi (basti solo nominare Bresson, Dreyer, Bergman, Tarkovskij) — ha smentito la convinzione di Antonin Artaud, il famoso teorico del teatro francese, per il quale «il cinema gioca solo con la pelle umana delle cose, il derma della realtà». No, ogni film di Olmi e ogni sua ricerca sono stati simili a una spada di luce che trapassa l’epidermide della storia per coglierne la carne e scendere fino al midollo delle ossa.

Fulvia Caprara sulla Stampa

Se oggi fosse ancora qui e potesse leggere l’infinita lista di ricordi, commenti e commemorazioni che accompagnano la notizia della morte, forse reagirebbe con uno dei suoi sorrisi lievi e accoglienti, come per dire: basta, pensate ad altro, non sono poi così importante. Era così Ermanno Olmi, 86 anni, nato a Bergamo e scomparso ad Asiago alla fine di una malattia che non lo aveva privato nemmeno per un attimo della sua voglia di lavorare e progettare. Un regista capace di lasciare, a chiunque abbia visto anche uno solo dei suoi film, un’eredità di affetto per gli esseri umani, una leggerezza speciale fatta di convinzioni fondamentali, una semplicità poetica adatta a colpire persone estremamente diverse da lui, un modo, raro e completo, di essere profondamente cattolico: «Dopo l’esaltazione della furbizia, della prevaricazione, dell’egoismo - aveva detto a Bari, mentre girava Il villaggio di cartone, dedicato alla storia di una chiesa inagibile trasformata in luogo di accoglienza per extracomunitari senza permesso di soggiorno -, ma anche, ed è giusto, della sfida e della competizione, sentiamo il bisogno, credo, di pensare all’amore».
Un pensiero che non lo ha mai abbandonato, da quando, dopo l’infanzia a Treviglio e gli studi a Milano, si era iscritto all’Accademia di Arte drammatica e aveva iniziato a lavorare come fattorino alla Edison, trovando lì il tempo di realizzare documentari sul lavoro. Ne fece una quarantina, mettendo a fuoco la passione destinata ad accompagnarlo per sempre, in primo luogo l’individuo nel suo percorso di lavoro, affetti e privazioni.
Un itinerario che, nello sguardo di Olmi, poteva diventava fantasioso e spirituale, abbandonare i binari della realtà per arrivare dritto all’essenza delle azioni umane. Dopo Il tempo si è fermato e dopo Il posto, su due ragazzi che cercano un impiego, Olmi diventa autore da riconoscimenti internazionali e nel ‘78 firma L’albero degli zoccoli, epopea del mondo contadino premiata con la Palma d’oro a Cannes, che lo ricorderà con uno speciale tributo.
Il legame con i luoghi delle origini, i boschi, le montagne, rimane sempre stretto, ma anche se Olmi non si trasferisce mai a Roma, il suo intuito vola lontano, cogliendo fremiti della società, avvertendo la necessità di trasmettere esperienze e visioni del mondo (nelle zone predilette, Olmi fonda con Paolo Valmarana la scuola Ipotesi di cinema), scoprendo che anche dietro le facce del cinema popolare ci sono anime in grado di comunicare sentimenti.
Succede nel Segreto del bosco vecchio, del 1993, dove Paolo Villaggio, toccato dalla grazia di Olmi, svela insospettabili sensibilità, succede in Cantando dietro i paraventi, con Bud Spencer in un cast orientale, succede con Centochiodi dove Raz Degan è un professore di filosofia che ricorda la figura di Cristo e dove, in una sequenza pittorica, i libri vengono inchiodati al suolo per dire che la cultura è inutile se priva di afflato umano: «Nelle società - spiegava l’autore in un’intervista a La Stampa - quando vi sono momenti sereni, si introduce la pigrizia del far tacere gli interrogativi della coscienza. Più vai avanti con gli anni, più ti rendi conto che della disciplina artistica non te ne importa nulla, cerchi altro».
Con la malattia aveva già avuto a che fare, ma l’aveva vinta ed era tornato al lavoro, pronto a girare film cruciali come Il mestiere delle armi, a collaborare con due grandi come Abbas Kiarostami e Ken Loach in Tickets, a raccontare i luoghi della prima guerra mondiale con Torneranno i prati, a pubblicare il libro L’apocalisse è un lieto fine, a realizzare Vedete, sono uno di voi, dedicato alla figura del Cardinale Martini e agli anni drammatici del suo arcivescovado, tra crisi, terrorismo, scandali e corruzioni.
Nel 2007 Olmi aveva dichiarato di voler abbandonare il cinema di finzione per dedicarsi solo al racconto della realtà. E una volta aveva detto che il cinema non era l’elemento centrale della sua vita: «La cosa più importante è essere vivi». Lui lo è stato fino all’ultimo attimo, nei luoghi e con le persone che lo rendevano felice, sicuramente convinto che quello fosse il suo più valido traguardo.

Ferdinando Camon sulla Stampa
È morto mio fratello. Cattolico come me, incompreso e schernito tutta la vita per la sua cattolicità. I suoi capolavori sono tre-quattro, ma il capolavoro dei capolavori resta L’albero degli zoccoli, storia del cattolicesimo delle campagne, che ha una caratteristica che in tempo di dominio culturale marxista risultava urtante: la sopportazione.
Ne succedono di tutti i colori, alla famiglia contadina di Olmi, che sopporta tutto e sempre, e alla fine, per sovrappiù, viene sloggiata dalla campagna che conduceva in affitto e se ne va portandosi via tutte le sue robe in un carretto. Mai una protesta, mai una risposta alle angherie e ai soprusi. C’è solo un personaggio nel film che si ribella, ed è il cavallo, che a un certo punto s’imbizzarrisce e scalcia in aria. Recensendo il film, L’Espresso titolò la stroncatura con un titolo velenoso: «E il cavallo disse: Basta!».

Quel grido «Basta!» che monta nello spettatore fin dall’inizio del film, non scappa fuori dal padre della famiglia, o dalla madre, o da uno qualsiasi dei suoi componenti, no, salta fuori dal cavallo: il cavallo è l’unico vero personaggio marxista di tutta la storia. Ma il cattolicesimo orante e sopportante di Olmi non è in-giudicante e perdonante. L’albero degli zoccoli gronda condanna e maledizione sui padroni, sui ricchi, sui potenti, sugli impietosi. Oserei dire che la condanna è molto più drastica nell’Albero degli zoccoli che in Novecento di Bertolucci. È che per Olmi c’è un altro tempo oltre il tempo della vita. Olmi indica all’uomo valori che scavalcano l’uomo.
L’ho intervistato per questo giornale, in quel momento gli era esplosa una malattia maligna, che si temeva potesse impedirgli di lavorare, gli feci una specie di esame della sua cattolicità, lo interrogai sulla malattia come possibile causa solvente del matrimonio, mi rispose di no, lui era malato ma sua moglie restava con lui, gli chiesi dunque se per lui valeva la formula «Nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non separi», rispose di sì, gli chiesi se questa era sottomissione alla Chiesa, rispose di no, questa era sottomissione alla vita: perché è vero che se tu cambi donna ricominci da zero con la conoscenza della compagna, ma la conoscenza di una persona non è mai esaurita, non puoi mai buttarla via dicendo: «Qui non c’è più niente». Tutte le situazioni che noi consideriamo esaurite in realtà non hanno fondo. La guerra. Il bosco. L’altopiano. L’ufficio. La campagna.
La nostra fraternità deriva dall’essere figli della campagna, ma la sua era più obbediente e remissiva, diciamo più ortodossa, era la campagna bergamasca, la mia campagna veneta era più rozza e manesca, a monte ci senti ancora l’immortale Ruzzante. Lui girava L’albero degli zoccoli, film sulla rassegnazione che fa risaltare la prepotenza, io scrivevo Un altare per la madre, invenzione di una santità che è figlia dell’obiezione di coscienza, rifiuto della guerra, dell’esercito, della patria, per la ricerca di un’altra patria. Repressa è la mia umanità, repressa è quella di Olmi.
Intoccabile la fidanzata nella mia campagna, come in quella di Olmi. «Io vi domanderei la grazia – dice in dialetto il ragazzo di Olmi – de poderve ‘compagnar», «Sono cose – risponde lei – che richiedono il loro tempo». Brusio in sala, quando uscivano queste parole: ognuno le aveva sentite, ma tutti le avevano dimenticate. Era il mondo d’antan, il mondo della nostra innocenza, quando credevamo in qualcosa. Olmi custodiva quel qualcosa, e ce lo restituiva intatto.
È uno dei pochi veri grandi autori che ci ricordano come la civiltà contadina, che stava morendo, era migliore (più buona, più giusta) della civiltà industriale che la soppiantava. Ma il confronto non avviene sul piano morale, bensì sul piano economico. Quella civiltà era povera, dunque debole. Ed è stata spazzata via. Secondo Charles Péguy, poeta francese, è questo il più grande evento della storia, dopo la nascita di Cristo. Olmi lo testimonia.