Gianfranco Ravasi per la Repubblica
Fulvia Caprara sulla Stampa
Se oggi fosse ancora qui e potesse leggere l’infinita lista di ricordi, commenti e commemorazioni che accompagnano la notizia della morte, forse reagirebbe con uno dei suoi sorrisi lievi e accoglienti, come per dire: basta, pensate ad altro, non sono poi così importante. Era così Ermanno Olmi, 86 anni, nato a Bergamo e scomparso ad Asiago alla fine di una malattia che non lo aveva privato nemmeno per un attimo della sua voglia di lavorare e progettare. Un regista capace di lasciare, a chiunque abbia visto anche uno solo dei suoi film, un’eredità di affetto per gli esseri umani, una leggerezza speciale fatta di convinzioni fondamentali, una semplicità poetica adatta a colpire persone estremamente diverse da lui, un modo, raro e completo, di essere profondamente cattolico: «Dopo l’esaltazione della furbizia, della prevaricazione, dell’egoismo - aveva detto a Bari, mentre girava Il villaggio di cartone, dedicato alla storia di una chiesa inagibile trasformata in luogo di accoglienza per extracomunitari senza permesso di soggiorno -, ma anche, ed è giusto, della sfida e della competizione, sentiamo il bisogno, credo, di pensare all’amore».
Un pensiero che non lo ha mai abbandonato, da quando, dopo l’infanzia a Treviglio e gli studi a Milano, si era iscritto all’Accademia di Arte drammatica e aveva iniziato a lavorare come fattorino alla Edison, trovando lì il tempo di realizzare documentari sul lavoro. Ne fece una quarantina, mettendo a fuoco la passione destinata ad accompagnarlo per sempre, in primo luogo l’individuo nel suo percorso di lavoro, affetti e privazioni.
Un itinerario che, nello sguardo di Olmi, poteva diventava fantasioso e spirituale, abbandonare i binari della realtà per arrivare dritto all’essenza delle azioni umane. Dopo Il tempo si è fermato e dopo Il posto, su due ragazzi che cercano un impiego, Olmi diventa autore da riconoscimenti internazionali e nel ‘78 firma L’albero degli zoccoli, epopea del mondo contadino premiata con la Palma d’oro a Cannes, che lo ricorderà con uno speciale tributo.
Il legame con i luoghi delle origini, i boschi, le montagne, rimane sempre stretto, ma anche se Olmi non si trasferisce mai a Roma, il suo intuito vola lontano, cogliendo fremiti della società, avvertendo la necessità di trasmettere esperienze e visioni del mondo (nelle zone predilette, Olmi fonda con Paolo Valmarana la scuola Ipotesi di cinema), scoprendo che anche dietro le facce del cinema popolare ci sono anime in grado di comunicare sentimenti.
Succede nel Segreto del bosco vecchio, del 1993, dove Paolo Villaggio, toccato dalla grazia di Olmi, svela insospettabili sensibilità, succede in Cantando dietro i paraventi, con Bud Spencer in un cast orientale, succede con Centochiodi dove Raz Degan è un professore di filosofia che ricorda la figura di Cristo e dove, in una sequenza pittorica, i libri vengono inchiodati al suolo per dire che la cultura è inutile se priva di afflato umano: «Nelle società - spiegava l’autore in un’intervista a La Stampa - quando vi sono momenti sereni, si introduce la pigrizia del far tacere gli interrogativi della coscienza. Più vai avanti con gli anni, più ti rendi conto che della disciplina artistica non te ne importa nulla, cerchi altro».
Con la malattia aveva già avuto a che fare, ma l’aveva vinta ed era tornato al lavoro, pronto a girare film cruciali come Il mestiere delle armi, a collaborare con due grandi come Abbas Kiarostami e Ken Loach in Tickets, a raccontare i luoghi della prima guerra mondiale con Torneranno i prati, a pubblicare il libro L’apocalisse è un lieto fine, a realizzare Vedete, sono uno di voi, dedicato alla figura del Cardinale Martini e agli anni drammatici del suo arcivescovado, tra crisi, terrorismo, scandali e corruzioni.
Nel 2007 Olmi aveva dichiarato di voler abbandonare il cinema di finzione per dedicarsi solo al racconto della realtà. E una volta aveva detto che il cinema non era l’elemento centrale della sua vita: «La cosa più importante è essere vivi». Lui lo è stato fino all’ultimo attimo, nei luoghi e con le persone che lo rendevano felice, sicuramente convinto che quello fosse il suo più valido traguardo.
Ferdinando Camon sulla Stampa
È morto mio fratello. Cattolico come me, incompreso e schernito tutta la vita per la sua cattolicità. I suoi capolavori sono tre-quattro, ma il capolavoro dei capolavori resta L’albero degli zoccoli, storia del cattolicesimo delle campagne, che ha una caratteristica che in tempo di dominio culturale marxista risultava urtante: la sopportazione.
Ne succedono di tutti i colori, alla famiglia contadina di Olmi, che sopporta tutto e sempre, e alla fine, per sovrappiù, viene sloggiata dalla campagna che conduceva in affitto e se ne va portandosi via tutte le sue robe in un carretto. Mai una protesta, mai una risposta alle angherie e ai soprusi. C’è solo un personaggio nel film che si ribella, ed è il cavallo, che a un certo punto s’imbizzarrisce e scalcia in aria. Recensendo il film, L’Espresso titolò la stroncatura con un titolo velenoso: «E il cavallo disse: Basta!».
Quel grido «Basta!» che monta nello spettatore fin dall’inizio del film, non scappa fuori dal padre della famiglia, o dalla madre, o da uno qualsiasi dei suoi componenti, no, salta fuori dal cavallo: il cavallo è l’unico vero personaggio marxista di tutta la storia. Ma il cattolicesimo orante e sopportante di Olmi non è in-giudicante e perdonante. L’albero degli zoccoli gronda condanna e maledizione sui padroni, sui ricchi, sui potenti, sugli impietosi. Oserei dire che la condanna è molto più drastica nell’Albero degli zoccoli che in Novecento di Bertolucci. È che per Olmi c’è un altro tempo oltre il tempo della vita. Olmi indica all’uomo valori che scavalcano l’uomo.
L’ho intervistato per questo giornale, in quel momento gli era esplosa una malattia maligna, che si temeva potesse impedirgli di lavorare, gli feci una specie di esame della sua cattolicità, lo interrogai sulla malattia come possibile causa solvente del matrimonio, mi rispose di no, lui era malato ma sua moglie restava con lui, gli chiesi dunque se per lui valeva la formula «Nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non separi», rispose di sì, gli chiesi se questa era sottomissione alla Chiesa, rispose di no, questa era sottomissione alla vita: perché è vero che se tu cambi donna ricominci da zero con la conoscenza della compagna, ma la conoscenza di una persona non è mai esaurita, non puoi mai buttarla via dicendo: «Qui non c’è più niente». Tutte le situazioni che noi consideriamo esaurite in realtà non hanno fondo. La guerra. Il bosco. L’altopiano. L’ufficio. La campagna.
La nostra fraternità deriva dall’essere figli della campagna, ma la sua era più obbediente e remissiva, diciamo più ortodossa, era la campagna bergamasca, la mia campagna veneta era più rozza e manesca, a monte ci senti ancora l’immortale Ruzzante. Lui girava L’albero degli zoccoli, film sulla rassegnazione che fa risaltare la prepotenza, io scrivevo Un altare per la madre, invenzione di una santità che è figlia dell’obiezione di coscienza, rifiuto della guerra, dell’esercito, della patria, per la ricerca di un’altra patria. Repressa è la mia umanità, repressa è quella di Olmi.
Intoccabile la fidanzata nella mia campagna, come in quella di Olmi. «Io vi domanderei la grazia – dice in dialetto il ragazzo di Olmi – de poderve ‘compagnar», «Sono cose – risponde lei – che richiedono il loro tempo». Brusio in sala, quando uscivano queste parole: ognuno le aveva sentite, ma tutti le avevano dimenticate. Era il mondo d’antan, il mondo della nostra innocenza, quando credevamo in qualcosa. Olmi custodiva quel qualcosa, e ce lo restituiva intatto.
È uno dei pochi veri grandi autori che ci ricordano come la civiltà contadina, che stava morendo, era migliore (più buona, più giusta) della civiltà industriale che la soppiantava. Ma il confronto non avviene sul piano morale, bensì sul piano economico. Quella civiltà era povera, dunque debole. Ed è stata spazzata via. Secondo Charles Péguy, poeta francese, è questo il più grande evento della storia, dopo la nascita di Cristo. Olmi lo testimonia.