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 2018  maggio 07 Lunedì calendario

I Casamonica devastano un bar per dimostrare che comandano loro

roma Frustate in pubblico, in pieno giorno, perché il messaggio deve arrivare a tutti. Anche ai bambini che guardano spaventati grondare il sangue a terra, perché «qui comandiamo noi e se non fai quello che diciamo, ti ammazziamo», parola dei Casamonica. È la domenica di Pasqua quando due esponenti del clan entrano in un bar della periferia sud- est della capitale e compiono un massacro. Picchiano una giovane donna disabile solo perché osa parlare, poi ritornano, colpiscono a bottigliate il barista e gli distruggono il locale. Non li ha serviti per primi, ha mancato di rispetto e la deve pagare. I Casamonica, mille affiliati e un patrimonio da quasi cento milioni di euro. Il loro regno è un territorio militarizzato, con le vedette a ogni angolo e le ville barocche che occupano pezzi di strade e marciapiedi. Lo sfarzo ostentato per intimorire e celebrare la potenza criminale, come per le esequie di zio Vittorio, tre anni fa: con le carrozze, l’elicottero e l’acclamazione a re. Prepotenza e brutalità sono la regola, si vive sotto assedio. Il primo aprile è una giornata di festa. Dentro al bar di via Salvatore Barzilai, periferia sud-est della città, una bimba sorride in braccio al suo papà, alcuni ragazzi prendono il caffè, una giovane è in coda alla cassa, Entrano i boss, vogliono le sigarette e pretendono di essere serviti subito. Funziona così, per loro non esiste la fila. Il barista, un ragazzo romeno con gli occhi azzurri e tre dita perse lavorando, non se ne accorge e loro non lo possono tollerare. «Questi romeni di merda non li sopporto proprio» urla Antonio Casamonica al cugino Alfredo Di Silvio. La giovane dietro di lui li riprende: «Se il bar non vi piace andate altrove». È la fine. Casamonica, 26 anni e all’attivo condanne per estorsione e falso più un processo per evasione, le strappa con una mano gli occhiali e li lancia dietro al bancone, poi si sfila la cinta dai pantaloni e la passa a Di Silvio. I due sanno come fare: sono corpulenti e già da piccoli hanno imparato a picchiare. La prendono alle spalle, la frustano e poi calci, pugni fino a quando crolla a terra massacrata. La bambina sgrana gli occhi terrorizzata, ma nessuno si muove, nessuno interviene per difendere quella giovane. Una donna e disabile. Le strappano di mano il telefono e, mentre lei striscia a terra e chiede di riaverlo indietro, glielo lanciano contro ordinando: «Se chiami la polizia ti ammazziamo». Il messaggio vale per tutti. Il locale si svuota, resta solo il barista a soccorrerla e a consigliarle di andarsene «perché torneranno». E infatti mezz’ora dopo eccoli arrivare, Alfredo Di Silvio irrompe con il fratello Vincenzo. Spaccano la vetrina, rovesciano tavoli e sedie: «Qui comandiamo noi, non te lo scordare: questa è zona nostra. Ora questo bar lo devi chiudere, altrimenti sei morto». Anche questa volta non interviene nessuno. Sono cinque i clienti che rimangono seduti a giocare ai videopoker. Il barista è a terra, il suo volto è coperto di sangue. Gli schizzi arrivano fino al muro, colano accanto al calendario della Guardia di finanza. Intorno a lui sembra sia scoppiata una bomba, è tutto in frantumi. Trenta giorni di prognosi per lei, otto per lui. Li hanno massacrati. La giovane non conosce i suoi aguzzini, era lì per caso, ma ha capito che appartengono alla famiglia, quella che comanda e di cui bisogna aver paura. Il barista invece sa bene chi sono, i Di Silvio abitano nella stessa via e i Casamonica cento passi più in là. Le due vittime però, il giorno dopo, si fanno coraggio e denunciano. Un affronto senza precedenti, quando il clan lo scopre fa scendere in campo un pezzo da novanta. Enrico, il nonno dei fratelli Di Silvio, condannato per sequestro di persona e lesioni, si presenta al bancone. Ordina un caffè e il ritiro immediato delle accuse, pena la morte. La violenza mafiosa di chi sente padrone. Il barista è terrorizzato e per due giorni la serranda rimane abbassata. La moglie però non ci sta, quel locale aperto con tanti sacrifici è il loro lavoro, la loro vita e non possono rinunciarci. All’angolo della strada due ragazzoni appoggiati alla macchina fissano l’ingresso del bar. Dentro sembra non sia successo nulla, il giovane romeno è tornato dietro al bancone. Dopo tre caffè racconta la sua paura e, solo quando non ci sono più clienti, tira fuori il telefonino. Mostra le immagini riprese dalla telecamera sopra i gratta e vinci e i tabacchi. Ha immortalato la sequenza dell’orrore criminale. Da quel giorno ha cambiato le sue abitudini, il percorso per tornare a casa e teme che in ogni momento possa entrare qualcuno della “famiglia”. All’uscita i due sono ancora lì, lo sguardo fisso sul locale. Quello di chi impone il suo violento potere mafioso.