la Repubblica, 7 maggio 2018
Grazie alla questione iraniana molti leader nascondono i loro problemi interni
“Abbandonare l’accordo sul nucleare sarebbe un errore storico. Solo tre Paesi, Stati Uniti Israele e Arabia saudita, sono contrari a quel patto». Il presidente iraniano Hassan Rouhani lancia questo ultimatum a Donald Trump a sei giorni dalla scadenza cruciale. Il 12 maggio il presidente americano può “ri-certificare” l’accordo davanti al Congresso allungandone la vita di sei mesi; oppure denunciarne la violazione da parte di Teheran, dichiararlo nullo, e ripristinare le sanzioni economiche che erano state parzialmente eliminate da Barack Obama. La pressione su Trump è concentrica, da tutte le direzioni. Dopo le visite di Emmanuel Macron e Angela Merkel, a Washington è la volta del britannico Boris Johnson: i tre Paesi europei firmatari dell’intesa tentano di evitare che salti per aria. Ma rischia di essere ben più efficace la voce di Benjamin Netanyahu, per l’impatto che ha su questa Amministrazione Usa e sulla maggioranza repubblicana al Congresso. Il premier israeliano, che la settimana scorsa aveva offerto le presunte prove di menzogne iraniane, torna alla carica: «Se l’accordo non viene cambiato, l’Iran finirà per avere un arsenale nucleare in pochissimo tempo». E il nuovo segretario di Stato Mike Pompeo non ha lasciato molti dubbi sulle intenzioni di Trump. In visita in Arabia saudita, Pompeo ha definito l’Iran «il massimo sponsor del terrorismo nel mondo». L’atmosfera da vigilia di Apocalisse va corretta con alcune avvertenze. In questa vicenda molti recitano una sceneggiata che ha come audience i propri interessi domestici. Trump si allinea con Israele perché questo è un articolo di fede della destra repubblicana da molti anni (inclusa la componente religiosa dei fondamentalisti protestanti). Netanyahu focalizza l’attenzione su una crisi estera perché è assediato dagli scandali in casa sua. Esiste anche uno scontro politico interno all’Iran, dove l’autorità religiosa più conservatrice non ha mai visto di buon occhio la manovra di disgelo avviata da Rouhani-Obama. Moderato riformista, Rouhani sperava di usare la fine delle sanzioni per una sorta di “transizione cinese”, traghettando l’Iran verso l’economia globale. Ma questo può essere vissuto come un pericolo mortale per il blocco di potere centrato sui Pasdaran, il braccio militare degli ayatollah, che gestiscono pezzi dell’economia nazionale (e rubano parecchio). Gli europei avevano adocchiato l’opportunità di riaprire l’Iran come destinazione per i loro business, visto che in quel Paese tante imprese tedesche, francesi e italiane misero radici profonde, in stagioni migliori. Ognuno gioca una partita politica interna, ma la posta in gioco è alta. In Medio Oriente un errore di calcolo può innescare una spirale incontrollabile. Iran, Israele e Arabia saudita hanno già arsenali di distruzione immensa, anche a prescindere dal nucleare. Guai se qualcuno sbaglia a prevedere le reazioni dell’avversario. E come spesso accade in Medio Oriente, la realtà non è mai come appare. Per esempio, la levata delle sanzioni americane è stata meno generosa di come la descrive Trump. In realtà Obama distillò col contagocce le concessioni. Perché su un punto Obama e gli europei già nel 2015 convergevano verso le critiche attuali: l’accordo è insufficiente, migliorarlo è essenziale. In particolare sul regime delle ispezioni che lascia molta discrezionalità agli iraniani; e sullo sviluppo di missili micidiali che Teheran continua a fabbricare perché non sono regolati da quell’intesa. Una via d’uscita l’ha indicata l’Institute for National Security Studies di Tel Aviv: ricordando che se quell’accordo si chiama “5+1” c’è una ragione. Cinque più uno sono i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) più la Germania. L’Iran in quel perimetro non appare, per la semplice ragione che buona parte del percorso lo hanno fatto gli altri, mettendo Teheran di fronte al fatto compiuto. C’è quindi spazio perché americani ed europei lavorino sul miglioramento. Forse basterebbe strappare a Trump un altro rinvio di sei mesi della sua decisione. Prima bisogna convincerlo a non farne una questione di vita e di morte.