Libero, 7 maggio 2018
Lo Stato dimezza il nostro Pil
Nelle ultime settimane due dati dell’economia hanno fatto incomprensibilmente esultare l’esecutivo in carica guidato da Paolo Gentiloni. Il primo è quello sulla disoccupazione, che in effetti al mese di marzo scorso è sceso all’11% netto in calo dall’11,8% dell’anno precedente. Il secondo è il dato sulla crescita del Pil nel primo trimestre 2018, con un avanzamento dello 0,3%. Sono dati positivi, e ci mancherebbe: il ciclo economico è di ripresa, e non c’è un solo Paese in Occidente che non cresca. Però in Europa il dato sulla disoccupazione italiana è il peggiore anno su anno dei 28 paesi che ancora la compongono: (...) :::segue dalla prima FRANCO BECHIS (...) l’Italia infatti è al 28° posto e non era mai scesa così in basso negli ultimi 20 anni. Quello sul Pil è un pizzico meno peggio: il 26° dato su 28 Paesi, anche perché due di loro non hanno fornito l’aggiornamento. Quando arriveranno anche i loro dati, è possibile che in questo caso l’Italia sia divenuta maglia nera della classifica europea. Così in basso non si era mai scesi, e i numeri raccontano del governo Gentiloni una storia assai diversa da quella ufficiale: evidentemente l’esecutivo non solo non ha lavorato per il bene del Paese zitto zitto come veniva descritto, ma ha messo pesantemente i bastoni fra la ruote alla macchina produttiva italiana. Peggio dei suoi predecessori, perché è dal 2010 che i numeri dell’economia italiana progressivamente si stanno allontanando in maniera preoccupante dal ciclo economico, e quindi sia dalla media dei risultati dei Paesi dell’area dell’euro, sia da quella dei Paesi europei in generale. Le misure adottate dai vari esecutivi hanno complicato la vita del motore produttivo invece di accompagnarla o magari aiutarla. GUERRA DEI 20 ANNI Siccome questa situazione dura con sfumature diverse da 20 anni e più, altre volte è stato sottolineato come siano stati camicia di forza per l’economia italiana i vari sistemi di regole internazionali a cui i governi di Roma hanno via via aderito in modo acritico: dai patti europei a quelli bancari. Quel che aveva un senso per economie fatte di pochi soggetti grandi, facilmente orientabili, creava invece problemi in una economia molto frazionata come quella italiana, composta da milioni di piccole e medie imprese spesso familiari. Ma il tema oggi va anche oltre questa analisi generale, che pure è fondata. Basta guardare il dato recentissimo sulla disoccupazione: oggi a parte le variazioni anno su anno, anche nelle cifre assolute l’Italia è in fondo alla classifica: è il terzultimo Paese in Europa, superato solo dalla Grecia (20,6%) e dalla Spagna (16,1%). Due anni fa, nel marzo 2016, l’Italia aveva un tasso di disoccupazione dell’11,4% e di Paesi messi peggio di lei ce ne erano 5: Grecia (24,4%), Spagna (20,4%), Croazia (14,9%), Portogallo e Cipro (12,1%). In due anni in barba alla retorica sui miracoli del job act l’Italia non si è praticamente mossa, mentri tutti quelli che stavano peggio di lei hanno fatto dieci volte tanto. Il Portogallo- che ha come moneta l’euro- oggi è sceso al 7,4%, quasi dimezzando in così poco tempo la disoccupazione. Grecia e Spagna mentre l’Italia migliorava di 4 decimi di punto, hanno ridotto la loro disoccupazione di 4 punti. Se facciamo molto peggio di tutti gli altri Paesi dunque è anche altro: quello di uno Stato fieramente avversario della cultura imprenditoriale e in genere del mondo delle imprese, che senza quei bastoni fra le ruote e senza nessuna legge di presunto favore, probabilmente se la caverebbero assai meglio da sole. GLI OSTACOLI Il primo ostacolo è ben noto: lo Stato continua ad avvalersi di servizi e forniture delle imprese private non pagando, o saldano a mesi se non anni di distanza dai lavori, e spesso non lo saldano affatto cercando trattative per chiudere in bonis il contenzioso attraverso forti sconti dei fornitori. Così, oltre a ridurre il Pil, si mettono in ginocchio le imprese anche quando potrebbero agganciarsi al ciclo economico positivo. E poi le imprese vengono trattate dallo Stato come soggetti para-criminali e con sospetto. Basta guardare al comportamento di Agea con le imprese agricole italiane, e la filosofia stessa del nuovo codice degli appalti, e unirle con i mancati pagamenti e il quadro è più che chiaro. Gli appalti pubblici italiani vengono ormai assegnati sempre con il criterio del massimo ribasso dell’offerta. Alla fine è come si lavorasse sempre sottocosto, in un discount: in media lo sconto a cui sono stati obbligati i vincitori per ottenere la commessa è intorno al 40%. I margini delle imprese sono ridotti all’sso, e in alcuni casi quella cifra viene ottenuta risparmiando sui materiali utilizzati. Eclatante il risultato nel rifacimento dei manti stradali dentro e fuori le grandi città. I materiali usati sono talmente poveri, che alla prima pioggia si aprono voragini. È leggendaria la situazione delle buche a Roma. Ma mezzo centro Italia, tutto il Sud e ora anche il meglio del Nord (perfino Milano) stanno provando sulla loro pelle che significa il massimo ribasso. Il caso degli agricoltori è ancora più evidente. L’Italia riceve notevoli finanziamenti dall’Unione europea, che vengono filtrati nella maggiore parte dei casi da Agea, l’ente pubblico nazionale che dovrebbe procedere ai pagamenti. Solo che non procede. Non paga – in alcuni casi da molti anni – e di fronte alle inevitabili proteste, parte con ispezioni e contestazioni spesso di lana caprina per continuare a non pagare e cercare di riavere indietro il poco già liquidato. Il risultato è che una impresa agricola ha acquistato certa di quell’incentivo costosi strumenti per l’agricoltura di precisione, che poi si deve pagare da sola o accrescendo il debito bancario se può con danno evidente al proprio conto economico. Due esempi che raccontano come se un po’ di Pil e un po’ di occupazione in più ancora viene registrato in un Paese in queste condizioni, è per il miracolo compiuto dalle piccole e medie imprese. Figuriamoci che accadrebbe se non si mettesse loro continuamente in una corsa ad ostacoli...