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 2018  maggio 07 Lunedì calendario

Dc e Pci erano d’accordo sulla morte di Moro

Il 9 maggio 1978 Aldo Moro non fu ucciso solo dalla follia assassina delle Brigate rosse e dall’incapacità dello Stato, a qualsiasi livello dei suoi apparati di sicurezza, di impedire che i terroristi eseguissero la loro condanna a morte. Ci fu anche una sorta di tacito accordo politico, sottoscritto più o meno esplicitamente dai leader dei partiti di allora, per evitare che il presidente della Dc potesse tornare vivo dalla «prigione del popolo». Sia il fronte della fermezza Dc-Pci, sia quello della trattativa guidato da Craxi, con Fanfani unico alleato forte del vertice democristiano, consideravano la salvezza del prigioniero più «destabilizzante» della sua uccisione.
Nel secondo, tragico anniversario, dopo il 16 marzo, di quei 55 giorni e di quel terribile ’78, a dar voce ai dubbi che per quarant’anni ne hanno accompagnato le rievocazioni non sono nuovi studi sull’accaduto. Ma le testimonianze di tre protagonisti dell’epoca che hanno scelto di confessare, seppure con diversi accenti, le loro decennali e più recondite riflessioni sull’evento che più di tutti contribuì a cambiare la parabola finale della Prima Repubblica. Claudio Petruccioli era un dirigente del Pci, condirettore dell’Unità e in questo ruolo a contatto quotidiano con il vertice berlingueriano del partito; Gerardo Bianco, in attesa di diventare segretario dei Popolari, faceva il vice capogruppo della Dc alla Camera; Gennaro Acquaviva, al fianco di Craxi, ne coordinava lo staff come capo della segreteria.
L’asse sospetto Dc-Pci
Insieme si sono confrontati pubblicamente su Mondoperaio, e delle loro testimonianze si parlerà proprio il 9 maggio in un convegno al Senato.
L’ordine era: cercare di «stabilizzare» l’Italia, impegnata nel difficile esperimento dei governi di unità nazionale fondati sull’asse Dc-Pci e proprio per questo guardata con sospetto sia da Ovest sia da Est. Come disse Steve Pieczenik, l’uomo inviato dall’amministrazione Usa per collaborare con il ministro dell’Interno Cossiga, e come ricorda Petruccioli, «il centro di gravità, necessario per stabilizzare l’Italia, si sarebbe creato sacrificando Moro». Potevano i due maggiori partiti italiani, simmetricamente bloccati dalla natura di Paese «a sovranità limitata» dell’Italia, opporsi a pressioni così pesanti?
Gli americani, ragiona l’ex condirettore dell’Unità, non si erano mai rassegnati all’idea della partecipazione organica del Pci alla maggioranza, e men che meno al possibile passo successivo dell’ingresso nell’esecutivo. E anche i sovietici non accettavano la progressiva occidentalizzazione del Pci di Berlinguer, che si era già dichiarato a favore della Nato e si sarebbe potuto anche spingere più avanti per realizzare l’obiettivo del Pci al governo. Il paradosso della posizione comunista (Nilde Iotti lo definì un «ritiro sul monte Sinai») era che considerava più rassicurante, ai fini del consolidamento dell’alleanza con la Dc, la scomparsa di Moro, che pure era stato il costruttore del progetto politico dell’unità nazionale, che non il suo ritorno in scena.
Inoltre, giocava a favore delle resistenze e del loro sostanziale immobilismo la mancata conoscenza del fenomeno terroristico e il rifiuto di approfondirla in modo scientifico, per opposte e coincidenti ragioni. La Dc temeva di far emergere gli aiuti, temuti e in qualche modo prevedibili, che le Br potevano aver ricevuto da pezzi deviati dei servizi di sicurezza e da ciò che genericamente veniva definito l’«Antistato». Il Pci intuiva che lo stesso genere di aiuti potevano essere arrivati dal sistema sovietico, proprio in chiave di sabotaggio della svolta attuata da Berlinguer con il «compromesso storico».
«Un assassinio di sistema»
La seconda ragione che pesò nel trattenere i due partiti, tenendoli risolutamente ancorati alla linea della fermezza e sostanzialmente rassegnati all’epilogo di morte del sequestro, furono le lettere di Moro, considerate vere, verissime, sincere, al contrario di quel che i dirigenti di Dc e Pci si affannano a dichiarare, e valutate come un possibile programma politico che il prigioniero, in caso di salvezza, avrebbe provato ad attuare, se del caso anche dal Quirinale, visto che era in quel momento il candidato più autorevole per l’elezione alla Presidenza della Repubblica.
Timori come questi – ammettono Acquaviva e Bianco – motivarono anche la timidezza e la sostanziale irrilevanza dei tentativi di trattativa con i terroristi per ottenere la liberazione dell’ostaggio. Sia di quelli espliciti del Psi – Craxi, alla domanda di Fanfani se in caso di rottura tra Dc e Pci avrebbe sostenuto egualmente il governo, non rispose -, sia di quegli altri, abbastanza pasticciati, maturati tra Dc e Vaticano. Secondo Acquaviva, il leader socialista condusse il suo tentativo sempre e solo sul piano umanitario, non politico, stando attento a non pregiudicare i rapporti con i partiti alleati. I leader superstiti della Prima Repubblica, sotto attacco delle Br di cui non immaginavano la forza aggressiva, sostanzialmente pensavano a uscire politicamente vivi da quel che stava accadendo. Così Moro fu lasciato morire. E il suo divenne, come scrive Mondoperaio in un titolo forte e chiaro, «un assassinio di sistema».