La Stampa, 7 maggio 2018
L’accordo sul nucleare del 2015
Che cosa si intende peraccordo sul nucleare?
Si tratta del Joint Comprehensive Plan of Action, l’intesa raggiunta nel 2015 dal negoziato tra Iran e Francia, Gran Bretagna, Germania, Cina, Russia, Stati Uniti e il resto dell’Unione europea. Prevede la rinuncia da parte della Repubblica islamica di tutti i suoi programmi nucleari relativi, in particolare, ai processi di arricchimento dell’uranio, con il conseguente impegno alla riconversione degli impianti dedicati e al monitoraggio delle attività per mezzo di ispezioni. In contropartita è previsto il richiamo di gran parte delle sanzioni nei confronti di Teheran e lo sblocco di miliardi di dollari dalla vendita del greggio e da beni e attività sotto sequestro.
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Come si pongono gli Usa dinanzi a tale accordo?
L’Iran Nuclear Agreement Review Act conferisce al presidente americano il potere di certificare ogni sei mesi al Congresso la conformità dell’operato di Teheran in merito alle norme attuative. E confermare la sospensione delle sanzioni in linea con la sicurezza nazionale Usa. Trump non ha mai fatto mistero dei suoi dubbi sulla bontà dell’accordo, negoziato e raggiunto dall’amministrazione Obama, arrivando a promettere di uscirne. Le pressioni dei partner europei, e di alcune fronde interne democratiche, ma anche repubblicane, lo hanno però fatto desistere per due volte, l’ultima il 13 ottobre 2017.
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Cosa critica Washington?
Sono tre gli elementi che rendono l’accordo iniquo, secondo Trump. Il primo è la scadenza fissata al 2025, che renderebbe incerto l’orizzonte. Ed è qui che Trump è in sintonia col premier israeliano Benjamin Netanyahu, ovvero che programmi e strutture per la creazione della bomba atomica da parte di Teheran potrebbero rimanere «congelati» in vista di tempi più opportuni. O quanto meno che possa procedere ad attività di ricerca militare per diversificare in altri arsenali, ancor di più perché gli accordi sulle ispezioni non prevedono l’accesso in siti che non siano considerati dediti allo sviluppo di tecnologie nucleari. Gli altri due punti riguardano il programma balistico iraniano (non incluso nell’accordo) e le aspirazioni regionali di Teheran, resi più importanti dal fatto che, con la sospensione delle sanzioni, Teheran si è trovata a portata di mano miliardi di dollari da dedicare agli armamenti.
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Sono punti che hanno ache fare con i programminucleari?
Sono quegli aspetti che durante le trattative culminate col Jcpa furono esclusi dal negoziato. Una scelta deliberata di Obama e del suo ministro degli Esteri, John Kerry, che si resero conto che procedere su più direzioni (bomba atomica, missili e questioni geostrategiche), li avrebbe trascinati sulle sabbie mobili senza giungere a nessuno accordo. In questo senso si può dire che Trump voglia riprendere il negoziato laddove era terminato (o forse meglio dire interrotto su determinati aspetti) dal suo predecessore. Anche perché l’attivismo di Teheran, tra Hezbollah in Libano, Houthi in Yemen e altre «procure» nella regione, ha registrato un’ulteriore accelerazione con la fine della guerra all’Isis e, sovente, in direzione non funzionale a quella degli alleati americani in loco, a partire da Israele e Arabia Saudita.
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Cosa succede il 12 maggio?
Venerdì è il termine ultimo entro il quale scadono i sei mesi per il rinnovo della certificazione dell’accordo da parte dell’amministrazione Trump. In mancanza della quale tornerebbero in vigore una parte delle sanzioni, la più importante perché mirate a colpire le transazioni finanziarie e perché applicabili con extra-territorialità. A quel punto, lo scenario più plausibile sarebbe un’uscita degli Usa dall’accordo. Manovra per la quale non è previsto il quorum dei 67 senatori perché l’accordo non è stato ratificato come trattato. Retaggio anche questo della precedente amministrazione: Obama per non andare incontro a insidiose votazioni ha optato per la formula dell’accordo esecutivo.
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Che cosa si intende peraccordo sul nucleare?
Si tratta del Joint Comprehensive Plan of Action, l’intesa raggiunta nel 2015 dal negoziato tra Iran e Francia, Gran Bretagna, Germania, Cina, Russia, Stati Uniti e il resto dell’Unione europea. Prevede la rinuncia da parte della Repubblica islamica di tutti i suoi programmi nucleari relativi, in particolare, ai processi di arricchimento dell’uranio, con il conseguente impegno alla riconversione degli impianti dedicati e al monitoraggio delle attività per mezzo di ispezioni. In contropartita è previsto il richiamo di gran parte delle sanzioni nei confronti di Teheran e lo sblocco di miliardi di dollari dalla vendita del greggio e da beni e attività sotto sequestro.
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Come si pongono gli Usa dinanzi a tale accordo?
L’Iran Nuclear Agreement Review Act conferisce al presidente americano il potere di certificare ogni sei mesi al Congresso la conformità dell’operato di Teheran in merito alle norme attuative. E confermare la sospensione delle sanzioni in linea con la sicurezza nazionale Usa. Trump non ha mai fatto mistero dei suoi dubbi sulla bontà dell’accordo, negoziato e raggiunto dall’amministrazione Obama, arrivando a promettere di uscirne. Le pressioni dei partner europei, e di alcune fronde interne democratiche, ma anche repubblicane, lo hanno però fatto desistere per due volte, l’ultima il 13 ottobre 2017.
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Cosa critica Washington?
Sono tre gli elementi che rendono l’accordo iniquo, secondo Trump. Il primo è la scadenza fissata al 2025, che renderebbe incerto l’orizzonte. Ed è qui che Trump è in sintonia col premier israeliano Benjamin Netanyahu, ovvero che programmi e strutture per la creazione della bomba atomica da parte di Teheran potrebbero rimanere «congelati» in vista di tempi più opportuni. O quanto meno che possa procedere ad attività di ricerca militare per diversificare in altri arsenali, ancor di più perché gli accordi sulle ispezioni non prevedono l’accesso in siti che non siano considerati dediti allo sviluppo di tecnologie nucleari. Gli altri due punti riguardano il programma balistico iraniano (non incluso nell’accordo) e le aspirazioni regionali di Teheran, resi più importanti dal fatto che, con la sospensione delle sanzioni, Teheran si è trovata a portata di mano miliardi di dollari da dedicare agli armamenti.
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Sono punti che hanno ache fare con i programminucleari?
Sono quegli aspetti che durante le trattative culminate col Jcpa furono esclusi dal negoziato. Una scelta deliberata di Obama e del suo ministro degli Esteri, John Kerry, che si resero conto che procedere su più direzioni (bomba atomica, missili e questioni geostrategiche), li avrebbe trascinati sulle sabbie mobili senza giungere a nessuno accordo. In questo senso si può dire che Trump voglia riprendere il negoziato laddove era terminato (o forse meglio dire interrotto su determinati aspetti) dal suo predecessore. Anche perché l’attivismo di Teheran, tra Hezbollah in Libano, Houthi in Yemen e altre «procure» nella regione, ha registrato un’ulteriore accelerazione con la fine della guerra all’Isis e, sovente, in direzione non funzionale a quella degli alleati americani in loco, a partire da Israele e Arabia Saudita.
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Cosa succede il 12 maggio?
Venerdì è il termine ultimo entro il quale scadono i sei mesi per il rinnovo della certificazione dell’accordo da parte dell’amministrazione Trump. In mancanza della quale tornerebbero in vigore una parte delle sanzioni, la più importante perché mirate a colpire le transazioni finanziarie e perché applicabili con extra-territorialità. A quel punto, lo scenario più plausibile sarebbe un’uscita degli Usa dall’accordo. Manovra per la quale non è previsto il quorum dei 67 senatori perché l’accordo non è stato ratificato come trattato. Retaggio anche questo della precedente amministrazione: Obama per non andare incontro a insidiose votazioni ha optato per la formula dell’accordo esecutivo.