Libero, 6 maggio 2018
La bancarotta dell’Argentina e il rischio tracollo della Turchia
Un soffio di vento, mica una tempesta. Eppure è bastato che i rendimenti delle obbligazioni decennali Usa salissero di poco oltre il 3% per meno di una settimana per far crollare la finanza di due Paesi tanto importanti quanto indebitati. Il caso più clamoroso è quella dell’Argentina, costretta venerdì a far salire il costo del denaro fino al 40% per tamponare la fuga dal peso. La misura ha recato un sollievo temporaneo, ma sono in pochi a pensare che i mercati concedano grande credito al presidente Macrì che chiede tempo per realizzare le sue «riforme graduali», una ricetta che a Buenos Aires non ha mai funzionato. Ma la situazione più esplosiva riguarda un Paese ben più vicino ed importante per le nostre relazioni economiche: la Turchia. Venerdì è stato un venerdì nero per la lira turca, che in una sola settimana, la peggiore dal 2008, ha lasciato sul terreno più del 5% del suo valore (addirittura il 10% da gennaio). Un bel guaio per un Paese fortemente indebitato in dollari che ha in cassa riserve valutarie in sufficienti per sostenere una fuga di capitali. Una situazione di emergenza esasperata dalla congiuntura politica, estremamente delicata. BIVIO ELETTORALE Il presidente Erdogan, infatti, ha indetto le elezioni anticipate per il prossimo 24 giugno, con l’obiettivo dichiarato di prendere possesso dei poteri che la nuova Costituzione da lui voluta garantisce al capo dello Stato e poter così prendere, parole sue, «decisioni importanti per l’economia». La reazione della grande finanza però non è stata quella che il Sultano si attendeva. A sorpresa l’agenzia Standard & Poor’s ha abbassato il rating della Turchia, nel timore di nuove regalie fiscali prima del voto, nonostante una congiuntura economica in rapido deterioramento. In settimana, infatti, l’allarme è stato confermato da alcuni segnali, tra cui l’aumento dell’inflazione al 10,85% che la banca centrale non è in grado di contenere nonostante i numerosi rialzi del costo del denaro (finora cinque dall’inizio del 2017). L’economia, già sicuro puntello e àncora di salvezza di Erdogan, minaccia così di trasformarsi in una mina per la sua affermazione elettorale comunque probabile contro il rivale Muharrem Ince, che si richiama all’eredità laica di Atatürk, e Demirtas, il candidato del Pkk curdo, oggi in prigione. Il mercato si sta rendendo conto che il lucido calcolo politico del Sultano potrebbe proprio essere quello di congelare la sua posizione politicamente dominante senza aspettare la fine naturale del mandato (2019) prima che la congiuntura economica possa prendere una piega davvero spiacevole. FUTURO INCERTO Si spiega così il pessimismo che ha fatto volare alle stelle il rischio Turchia, ai massimi dal 2008 a giudicare dall’andamento dei cds, mentre la stima delle banche è scivolata ai minimi tra i Paesi emergenti. Secondo una stima di Bloomberg oggi gli istituti di Ankara valgono circa un quarto di quelli dell’India, un Paese che, come la Turchia, deve fare i conti con l’aumento del prezzo del greggio. Non è una bella notizia per le nostre imprese, come Astaldi o Unicredit. L’unica nota positiva è che il rialzo dei tassi Usa, per ora, sembra sotto controllo. E la fuga dei capitali dai mercati emergenti, confermata dal calo dei fondi (-4,2% da inizio anno) potrebbe essere sospesa, così come sperano i Paesi nel mirino, dal Sud Africa al Messico, dove presto si andrà a votare. Ma non sarà comunque facile rimettere in sesto il castello di carta dell’Argentina. O il tesoro del Sultano di Istanbul, schiacciato dai debiti nonostante i tributi pagati dall’Unione Europea. riproduzione riservata