Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  maggio 06 Domenica calendario

L’eternità della carta

Nel pieno del secondo viaggio di Don Chisciotte, proprio quando il prode biscaglino e il famoso cavaliere hanno sguainato le spade e si preparano alla battaglia, Cervantes confessa ai suoi lettori che l’autore arabo del romanzo non ha fornito il seguito dell’avventura, e non sa come fare per scoprire cos’è successo dopo. Tuttavia, girovagando un giorno per i mercati di Toledo, Cervantes si imbatte in un ragazzo con una pila di carte che vuol vendere a un mercante di seta. Le pagine, scritte in caratteri arabi, si scoprono essere il seguito dell’avvincente storia. Cervantes ci dice che era stato attratto da quei fogli perché ha “per costume di leggere ogni pezzo di carta, anche di quelle che ritrovo per via”. E qui il cuore del lettore prova un moto di simpatia. La carta, come molti di noi sanno, dà dipendenza. In mancanza di un libro o di un periodico, come sa chi mi conosce, mi metto a scrutare l’etichetta su un pacco di pasta o una pubblicità di abiti nuziali, e anch’io leggo i pezzi di carta che trovo per strada. Io bramo la carta. Come credo la bramino le migliaia di persone che stanno per arrivare al Salone del libro di Torino che apre giovedì e che riempirà il Lingotto di carta, dimostrando che la materia di cui sono fatti quei volumi è più resistente del ferro delle automobili che un tempo invadeva la vecchia fabbrica. Non so se i nostri antenati provavano le stesse sensazioni per l’argilla su cui tracciavano i loro caratteri cuneiformi, o se i cibernauti di oggi confessino un intenso trasporto per lo schermo di plastica dei loro iPhone, ma non riesco a immaginare che questi altri supporti del testo possano suscitare un amore altrettanto forte. L’argilla è una sostanza elementale, come il fuoco e l’acqua; la pagina elettronica possiede un’impalpabilità spettrale che evoca oscuramente parole, attraverso un vetro. La carta è a metà fra due condizioni: la materialità oscura di cose terrestri e la qualità eterea di qualcosa che nasce dal nulla. Dante descrive questo stato intermedio quando parla di “lo papiro suso un color bruno,/ che non è nero ancora, e il bianco more”. La parola usata da Dante, papiro, rimanda alle origini simboliche della carta. Il midollo della pianta del papiro, che cresceva nel fango del Nilo, fu usato prima dagli egiziani e poi dai greci e dai romani, per i rotoli che gradualmente sostituirono le tavolette d’argilla della Mesopotamia. Le fibre venivano stese incrociate, uno strato sopra l’altro, per fornire al tessuto una compattezza sufficiente a scriverci sopra, e il suo odore portava alla mente il fango da cui era spuntata la pianta madre, suscitando in quei nuovi lettori di rotoli il dolce ricordo dell’argilla che prima tenevano fra le mani. Il papiro non era carta, ma nel suo aspetto lasciava presagire vagamente l’invenzione ancora di là da venire. Fino a poco tempo fa, gli storici erano convinti che la carta fosse stata inventata nell’anno 105 dopo Cristo, quando le notizie del nuovo e meraviglioso materiale giunsero fino l’imperatore cinese Ho-Ti, ma recenti scoperte spostano la data almeno due secoli prima. A prescindere dal momento esatto, in ogni caso, la carta veniva fabbricata pestando le fibre di corteccia di gelso fino a tirarne fuori un foglio: ben presto furono aggiunti panni e stracci di seta per renderla più resistente. Dalla Cina, la carta si diffuse in Corea, Giappone, Tibet e India: nell’VIII secolo, dopo che l’esercito T’ang venne sconfitto dagli Ottomani, i primi cartai cinesi furono portati a Samarcanda. Un secolo dopo, gli arabi producevano carta in botteghe esclusive a Bagdad, e non condivisero l’invenzione con i loro confratelli nordafricani fino al XII secolo; dall’Africa, la carta migrò verso l’Andalusia, in Spagna. La copia di Repubblica che avete tra le mani è la lontana discendente di quell’invenzione nomade. I tanti tipi diversi di carta sono le sottospecie dell’archetipo platonico: la carta acida dei romanzi di inizio Novecento; la carta ingiallita dei periodici dello scorso anno; la carta piena di macchie e fioriture di vecchie edizioni economiche di raccolte di poesia; la carta patinata dei libri pretenziosi, di quelli da ostentare sul tavolino in salotto; la carta India, quasi evanescente, associata alle prestigiose edizioni dei classici; la carta giapponese delle edizioni limitate, con la sua consistenza spessa; la carta blu delle cartiere di Fabriano che l’editore Franco Maria Ricci usava per la sua aristocratica collana “Segni dell’uomo”; la carta marmorizzata che evoca la Via Lattea e l’aurora boreale e abbellisce certi risguardi. Ogni sostanza ha qualità che possono renderla attraente: Marguerite Yourcenar scriveva della dolcezza della saliva, Miguel Hernández della rispettabilità del letame, Rupert Brooke del “maschio, ruvido bacio della coperta”. La carta ha tutte queste qualità: la dolcezza ( chi non ha mordicchiato l’angolo di una pagina letta e riletta?); la rispettabilità ( in confronto alla pergamena o allo schermo virtuale, cosa può esserci di meno pretenzioso di un pezzo di carta?); la ruvidezza ( ripensate alle pagine dure di un’edizione in brossura dove abbiamo letto per la prima volta Delitto e castigo o Le avventure di Sherlock Holmes, che vi sfregavano la pelle delle dita). La carta ha i suoi suoni unici: la perfetta quiete di un libro chiuso, o il sommesso crepitio di un foglio appallottolato prima di essere buttato nel cestino, o il fruscio delle pagine girate, che ci fa pensare a una folata di vento negli alberi da cui la carta è nata. E l’odore: legna bruciata d’inverno, caldarroste, lana, sudore pulito, colla essiccata, fumo, polvere vecchia, cedro e pino, ognuno che contiene la memoria specifica di un posto, un’ora, un agglomerato di parole. Il 30 agosto 1999 la rivista Wired scriveva che il dirigente Microsoft Dick Brass aveva annunciato che «fra vent’anni la carta sarà una cosa del passato». Ormai mancano pochi mesi a quella data minacciosa e la carta gode ancora di buona salute. Pronunciamenti come quelli di Brass nascono dall’impossibilità di accettare la pluralità dell’esperienza. Gli amanti della carta di solito sono tolleranti verso gli altri materiali: guardano al vetro e al legno con una certa tenerezza per il primordiale, alla plastica e al cemento con una rassegnata sensazione di presagio, al ferro, all’oro e all’argento con una comprensione per il bisogno delle persone di incarnazioni gerarchiche. Ma sanno che la verità risiede nella carta. “La notte è carta, noi siamo l’inchiostro”, ha scritto il poeta siriano Adonis. Viviamo, ancora, in mondi fatti di carta. ?