La Stampa, 6 maggio 2018
Per scorporare la rete Tim ci vuole il sì dei francesi
A prima vista quello che si è consumato venerdì all’assemblea di Telecom è un ribaltone: fuori i francesi di Bolloré, dentro gli americani di Elliott con il sostegno del governo e della Cassa depositi e prestiti. Ma è davvero così? Prendiamo l’obiettivo strategico attorno al quale si è saldato l’asse italo-americano, ovvero la separazione piena fra le attività di Telecom e l’infrastruttura di rete. Fatto solo il primo passo formale, per arrivare in fondo al processo occorreranno mesi e un complicato ridisegno di tutta l’azienda. Un’operazione straordinaria che dovrà passare dal voto favorevole di due terzi dell’assemblea, e dunque anche di colui che resta il primo azionista, proprio Vivendi. Convincerli non sarà semplice. Finora Bolloré e i suoi uomini si sono mossi secondo le regole che governano le grandi rete di telecomunicazioni europee: in Francia, Germania e Spagna l’ex monopolista pubblico ha ancora fra i suoi azionisti forti lo Stato e non ha mai perso il controllo verticale della rete. Solo ora il governo italiano ha deciso di tornare protagonista, forse con fin troppa ambizione. Prima sostenendo la nascita di un concorrente pubblico di Telecom sulla rete – Open Fiber, controllata da Cdp ed Enel – poi spingendo Cdp a investire parte del risparmio postale per tornare in possesso del cinque per cento dell’azienda Telecom. Ma far coesistere due reti in concorrenza fra loro è a dir poco inefficiente. Basti dire che a Perugia esistono ormai due reti ultraveloci in fibra mentre nove romani su dieci devono accontentarsi della vecchia rete in rame. Non è un caso se Open Fiber fatica a decollare: «Hanno appena 70 milioni di ricavi contro i nostri 4,6 miliardi», commentava qualche settimana fa alla Stampa il numero uno di Telecom Amos Genish.
Il governo – quello tuttora in carica – e i vertici di Cdp hanno spinto all’angolo i francesi sperando di ottenere due risultati: una rete quotata in Borsa, neutrale e in grado di assorbire Open Fiber prima che quest’ultima venga schiacciata dalla forza di Telecom trasformandosi in un problema per i conti di Enel e Cdp. Risultati più facili a dirsi che a farsi, e per almeno tre ragioni. La prima è che la fusione delle reti di Telecom e Open Fiber dovrà passare dal sì dell’Europa; perché ciò avvenga occorre che Telecom separi compiutamente le attività di fornitura dei servizi dall’infrastruttura. Non è necessario che ceda il controllo, ma dovrà garantire ai concorrenti (da Vodafone in giù) un accesso aperto alla rete, così come avviene per i treni privati di Italo sui binari e nelle stazioni di Ferrovie dello Stato. Due: occorrerà convincere i francesi ad accettare una valutazione di mercato della rete, iscritta a bilancio per oltre 14 miliardi, un valore ben più alto di quello che le attribuiscono gli analisti. E infine: chi garantisce che Elliott – il cui mestiere è quello del fondo speculativo – non lascerà la barca prima di portarla in porto? Il piano di navigazione è lungo e complicato, e non tiene conto della possibilità che nel frattempo il nuovo timoniere (il governo che verrà) decida di cambiare drasticamente rotta, magari imponendo a Telecom uno scorporo dall’alto e per legge. Una soluzione che nei mesi scorsi il governo ha accarezzato, salvo scartarla per evitare un conflitto con l’Europa. Un governo a trazione leghista potrebbe avere molti meno scrupoli sia verso gli azionisti privati che nei confronti di Bruxelles, e con conseguenze imprevedibili per la stessa Telecom.