La Stampa, 5 maggio 2018
Intervista a Terence Hill
Un’insaziabile curiosità per gli esseri umani. Può sembrare strano, ma, in fondo agli occhi blu di Terence Hill, si legge prima di tutto questo. E non è poco, perché al mestiere dell’attore si accompagnano, inevitabilmente, la concentrazione su se stessi e il gusto di esibirsi. Poco tempo, quindi, per guardare in faccia gli altri, a meno che non sia per rubarne espressioni e atteggiamenti da riportare sullo schermo. Terence Hill è una star che chiede «lei come sta?», che si incuriosisce quando si parla di altri attori e film, che ascolta, oltre che parlare, e offre pasticcini alla crema, incoraggiando chi ha davanti a trascurare la dieta. Sarà anche per questo che Mario Girotti, in arte Terence Hill, classe 1939, è riuscito ad attraversare con leggerezza, da quando aveva 12 anni, il mare agitato della vita, della notorietà, dello spettacolo: «Non c’è un modo per spiegare il successo di Don Matteo – riflette -, di sicuro conta il lavoro di gruppo, poi che le sue storie facciano sentire la gente meno aggredita. Mi dicono sempre “dopo averlo visto, vado a letto sereno”. E a me la parola “sereno” piace molto».
Ha abbandonato la tonaca per girareIl mio nome è Thomas,ambientato nel deserto, regno di quiete e silenzio. Come mai?
«Ci ho pensato per dieci anni, il punto di partenza è stato un libro del religioso Carlo Carretto Lettere dal deserto, mi ha colpito il suo linguaggio diretto, ha trascorso dieci anni nel Sahara, vivendo un’esperienza fuori dalle regole, molto personale, in cerca del mistero della vita. Il suo modo di scrivere non è da teologo né da filosofo, è semplice, come tutti vorremmo essere. Ho immaginato che, in posti così ampi e solenni, si potesse pensare a cose grandi, importanti. Sul mio ruolo non ho proprio riflettuto, anche perché, in genere, la gente vede me e sa che sono io e basta».
Il deserto è sfondo classico di storie western. Aveva voglia di tornare in quelle zone?
«Sì, sono i luoghi storici di una stagione del cinema italiano, abbiamo deciso di girare ad Almeria, dove sono stati ambientati tanti spaghetti western. Io, per esempio, ho recitato lì in Dio perdona, io no e nei 4 dell’Ave Maria. La città è bella, ma è molto cambiata, invece il deserto, per fortuna, è rimasto lo stesso».
Stavolta il suo cavallo è una moto, ma lei dà l’impressione di muoversi in una vicenda da cowboy. Un genere che, ultimamente, in America, sta vivendo un revival. Secondo lei perché?
«La gente ama vedere quei posti, sono spazi che impongono semplicità e offrono la possibilità di sognare, uscendo dagli schemi della vita quotidiana».
A lei che cosa piaceva, in particolare, del western?
«Uso le parole di Sergio Leone, diceva che grazie a quei film, ci si ritrovava “in un mondo epico”. Per tanto tempo gli sono stato vicino. Ricordo bene una volta, sul set del Mio nome è nessuno, mentre si girava la scena in cui Henry Fonda affronta i 150 del Mucchio selvaggio, Leone, che era il produttore, mi tirò da una parte, con le lacrime agli occhi: “Vedi? Questo è il western”. Il mio nuovo film doveva intitolarsi Me ne vado per un po’, ma poi, in omaggio a quell’esperienza, abbiamo deciso per Il mio nome è Thomas. E questo anche se oggi i film americani hanno titoli cortissimi, il pubblico non ha voglia di perder tempo, siamo una società distratta, devi fare un tweet per far sapere come la pensi».
Lei è estremamente popolare, eppure, fin dai tempi della saga con Bud Spencer, è sempre riuscito a proteggere la sua vita privata. Come ha fatto?
«Non so, mi è venuto naturale, quando ho cominciato avevo un agente famosissimo, che continuava a ripetermi “devi andare a questa festa, devi andare in quel locale, devi farti vedere, altrimenti non riuscirai ad avere una carriera”. Non sono mai andato da nessuna parte, poi è arrivato Trinità e non c’è stato bisogno d’altro».
Ha aiutato la scelta di vivere non a Roma, lontano dai riflettori?
«Sì, ho abitato in America per 30 anni in Massachussets, in mezzo ai cervi e ai tacchini. Poi, da quando faccio Don Matteo, vivo in Umbria, mi piace anche perché mio padre veniva da lì».
Succede che gli attori si stanchino di interpretare gli stessi personaggi per tanti anni. Lei con Don Matteo che rapporto ha?
«Mi prende tanto tempo, anche perché sono abituato a prepararmi bene prima delle riprese. Tanti arrivano sul set senza sapere niente. Pensi che io di notte ho ancora gli incubi, sogno di non trovare più la borsa con il copione».
Che cosa ha portato di se stesso nell’abito talare di Don Matteo?
«Per entrare nei suoi panni ho dovuto controllare l’ironia, che è una mia caratteristica naturale, ma ho continuato a sentirmi libero di fare battute, andare in bici in quel determinato modo».
Con Nino Frassica com’è andata?
«Benissimo. Abbiamo un grande rispetto reciproco. Certo, ci è voluto un po’ di tempo per ingranare. Io sono molto riservato e lui è siciliano. Adesso andiamo molto d’accordo, ci mandiamo messaggi brevi, che però vogliono dire tanto».
Che programmi ha?
«Se il film piace alla gente potrebbe esserci un seguito, ho in testa un paio di idee, che spero di poter realizzare, una con me sullo schermo e un’altra senza. Ma chissà, avevamo progetti anche con Bud, pure lui voleva fare tante cose».
Ne ha parlato varie volte, e forse non ha voglia di farlo. Le chiedo solo se è vero che, come ha dichiarato in passato, lei e Bud Spencer non vi siete mai detti che vi volevate bene.
«Sì, anche se siamo stati una coppia perfetta e non abbiamo mai litigato, nemmeno una volta».
È magro, asciutto, perfettamente in forma. Come fa?
«Merito di un buon Dna, anche mio padre era così. Ho sempre mangiato più di Bud, senza ingrassare, e lui non se ne faceva una ragione. Quando devo dimagrire faccio i pesi e un po’ di corsa. Adesso, per esempio, so che devo presentare il film in tv, sto a dieta, ma penso già al piatto di fettuccine che mi farò appena sarò libero».