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 2018  maggio 05 Sabato calendario

Il Nobel e le lotte di potere

«Da più parti, e dalla Svezia stessa, m’assicurano che ci sono numerose probabilità che questa volta le diverse centinaia di milioni del Premio Nobel per la Letteratura, mi vengano attribuiti», scriveva nel ’68 Giuseppe Ungaretti a Bruna Bianco, una giovanissima italiana residente in Brasile di cui l’ottantenne poeta era innamorato. Doveva essere per lui l’anno decisivo per la conquista dell’ambito riconoscimento. Perciò, spiegava, «giro come una trottola». Visite a Stoccolma, conferenze, convegni in tutto il mondo («anche a New York danno come sicuro il Nobel a me. Speriamo bene»), versioni in svedese «che sono opera del segretario generale stesso del Premio», ovvero Anders Johan Österling (1884-1981), traduttore anche di Quasimodo, Nobel nel ’59, e Saba, persino una serie di dettagliate istruzioni mondane redatte da un’amica italo-svedese, Anna Sanavio; e poi il discreto indaffararsi di Leone Piccioni, italianista votato a Ungaretti al punto di ostacolarne la relazione con la Bianco perché i severi giurati di Stoccolma non l’avrebbero vista di buon occhio; e ancora, soprattutto, una raccomandazione ripetuta come un mantra: «Di questo premio, che potrei anche non avere, non bisogna mai parlare, a nessuno. Su questo punto detestano le indiscrezioni, anche se si trattasse di Dante Alighieri».
Sono passati gli anni, ma lo schema non è cambiato di molto. A quei tempi non si scommetteva, e non si truccavano le scommesse sui vincitori come invece pare sia accaduto nell’ultimo decennio, ma ciò non inficia il cerimoniale, un pochino sadico: i candidati vengono espressi da un nugolo di istituzioni accreditate, con raffiche di indiscrezioni poco affidabili e spesso autopromozionali, ma poi devono guidare loro la scalata della montagna, e soprattutto fidarsi degli sherpa. A meno che il premio arrivi a sorpresa. Doris Lessing ricevette la notizia in ciabatte, proprio non se lo aspettava. Di Dylan sappiamo tutto. Il nostro Dario Fo lo seppe in autostrada e se ne stupì, anche se nel mondo tedesco, che conta molto in questo campo, lo davano da tempo per un probabile vincitore.
Gli editori e gli agenti, paradossalmente, contano un po’ meno; stanno nelle retrovie, anche se sono quelli che alla fine ricevono i maggiori benefici. Ernesto Franco, direttore dell’Einaudi – di Nobel in catalogo ne ha parecchi -, conferma che il premio raddoppia come minimo la tiratura, ma può arrivare a decuplicarla. E soprattutto muove tutti i libri del premiato. Se è già molto popolare e seguito, come Mario Vargas Llosa o Orhan Pamuk, o come il vincitore di quest’anno, Kazuo Ishiguro (per citare autori tradotti dallo Struzzo) gli incrementi sono forti in termini assoluti, meno ovviamente in percentuale. Il Nobel però non è lo Strega o il Booker o il Goncourt: le manovre devono essere molto più felpate, possono durare anni, lustri, chissà, decenni. Serve il sostegno degli istituti di cultura con sede nella capitale svedese, un po’ di politica, traduzioni, visite, alleanze internazionali. Poi, va da sé, può accadere come nel 2000 che vinca Gao Xingjian, cinese esule in Francia, detestato dal regime, semisconosciuto nel resto del mondo, e residente nella banlieue parigina in un casermone popolare.
Nonostante le scelte discutibili, le scommesse truccate, le scelte discutibili, il cipiglio post-luterano, il caro vecchio Nobel ha però un merito, anzi due: il primo è quello di essere un percorso iniziatico, un tormento mistico per chi lo ambisce, lo sogna, lo desidera e magari non lo ottiene. Il secondo è di essere imprevedibile.