la Repubblica, 5 maggio 2018
L’ambiente vent’anni dopo Sarno
ROMA Doveva servire di lezione, Sarno. Almeno questo ci si poteva augurare, dopo i 160 morti del maggio 1998. Una lezione per tutto il Paese: prevenire finalmente il micidiale dissesto idrogeologico, frenare abusivismo e cementificazione, risanare le ferite al paesaggio. Vent’anni dopo, ecco venti chilometri di canali di cemento. Costati, spiega il rapporto di Legambiente su quel che resta oggi di quel disastro, 400 milioni di euro. Quasi 2,5 volte la spesa iniziale prevista: 320 miliardi di lire. Ed è come se il tempo si fosse fermato. Soltanto il tempo, però. Da allora, nei Comuni colpiti dalla gigantesca frana del maggio 1998 sono state denunciate per abusi edilizi 27mila persone: il 10% della popolazione. Non è stato risparmiato proprio niente, a Sarno. Nemmeno le promesse. Il grande progetto Sarno, per esempio: 220 milioni di fondi europei per il risanamento strutturale del corso del fiume che ha il nome della città, il più corto e inquinato d’Europa, rosso degli scarichi illegali di lavorazione del pomodoro che avvelenano il mare fino a Capri. Progetto prioritario nei programmi Ue fin dal 2007 e mai partito. Con i soldi lì a marcire. La verità è che la strage di Sarno non ha lasciato segni, se non in 160 famiglie distrutte. E pensare che nell’immediatezza del disastro a qualcuno era venuta un’idea giusta: indagare sulle fragilità del territorio per poter prevenire. Era così nato l’Inventario dei fenomeni franosi, oggi gestito dall’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che ha tracciato una situazione allucinante del dissesto territoriale. Le frane censite sono 614.799. Per giunta, il dato è attendibile solo fino a un certo punto. Infatti il censimento è aggiornato al 2015: ma solo per sei Regioni (Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte, Sicilia, Toscana e Valle D’Aosta) e per la Provincia di Bolzano. Liguria, Emilia Romagna e Basilicata hanno invece dati aggiornati al 2014. Mentre tutte le altre, oltre metà del Paese, sono ferme al 2007: una foto vecchia di dieci anni. Eppure quella fotografia sarebbe essenziale per un’efficace politica di prevenzione, che non è mai stata seriamente neppure pensata. L’incuria del territorio, il consumo selvaggio del suolo, l’abusivismo galoppante incentivato dai condoni e la cementificazione legale favorita da piani regolatori piegati agli interessi della speculazione dimostrano come le responsabilità della politica e delle amministrazioni locali siano gravissime. A cominciare dal costo in termini di vite umane: nel 2017 i morti per frane e alluvioni sono stati 16, e 97 nei cinque anni precedenti. Portando così a 1.789 il bilancio del numero delle vittime in cinquant’anni, dal 1967. Tre persone al mese. Dal 2010 al 2016, insiste il rapporto “Ecosistema rischio” di Legambiente, le sole inondazioni hanno causato, oltre alla morte di 145 persone, pure l’evacuazione di 40mila abitanti. Secondo l’Ispra le aree a elevata criticità idrogeologica sono ormai il 15,8% del Paese. Si tratta di 47.747 chilometri quadrati, come due Toscane. Una superficie che ospita 7,1 milioni di persone dove, ricorda Legambiente, dal 2013 al 2016 si sono verificati 102 «eventi estremi» che hanno provocato l’apertura di 56 stati d’emergenza. Per non parlare dei costi. Secondo l’Ance, l’associazione dei costruttori, fra il 1944 e il 2013 i danni del dissesto idrogeologico sono ammontati all’equivalente di 67,5 miliardi di euro, per arrivare a superare i 75 miliardi nel 2016. Ma ciò che più impressiona è la progressione del costo annuo, passato dai 900 milioni in media fino al 2009 ai 2,8 miliardi di oggi. E poi i confronti. Dal 2002 al 2017 l’Unione europea ha subito danni per catastrofi naturali pari a 117 miliardi di euro. Di questi, precisa ancora l’Ance, quasi 50 miliardi riguardano la sola Italia. Esattamente, 49 miliardi e 868 milioni, il 43% del totale: anche se va detto che sul conto italiano incide assai quello dei terremoti. Secondo Paese in graduatoria è la Germania, con 23,2 miliardi, seguita dalla Francia con 7,5. Fate la prevenzione, rimprovera l’Europa. Anche perché ogni euro speso lì ne fa risparmiare quattro per riparare i danni. Ma da quell’orecchio non ci abbiamo mai sentito, almeno fino al 2014, quando si è cominciato a fare progetti più consistenti con i soldi europei per la riduzione del rischio. I risultati? Campa cavallo: si sa che ci vuole tempo. Sempre poi che vada tutto liscio. Cosa che in Italia è quasi impossibile. Dice tutto il caso della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico creata dal governo Renzi a maggio 2014 nella speranza di mettere ordine nei conflitti di competenze. Un caos indicibile, se si pensa che i soggetti con voce in capitolo su ogni singolo intervento sono almeno tredici, dal ministero dell’Ambiente ai Consorzi di bonifica. E qualcosa la struttura ha portato a casa, visto che da allora si è riusciti a spendere ben mezzo miliardo. Una goccia nel mare rispetto all’enorme fabbisogno di 26 miliardi stimato per 9.300 interventi necessari. Ma sempre meglio che niente. Il fatto è che le resistenze di quei 13 soggetti sono talvolta insormontabili. Con la fine della legislatura, anche il destino della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico sembra ormai segnato. E siamo pronti a scommettere che c’è già chi si sta fregando le mani. Del resto, non ha sempre funzionato così? I ministri passano, i burocrati restano…