la Repubblica, 5 maggio 2018
In Libano si vota
A volte ritornano. Nell’immaginario collettivo, più che nella realtà, ovviamente. Come nel caso di Bashir Gemayel, il giovane leder della Falange libanese ucciso in un attentato il 14 settembre del 1982, i cui tratti forti, da pugile fascinoso e benestante, tornano a campeggiare sugli striscioni che tappezzano Piazza Sassine, il cuore del quartiere cristiano di Ashrafieh, da dove il figlio di Bashir, Amine Gemayel, ha lanciato la sua sfida elettorale in nome del padre. Domani si vota, in Libano, dopo nove anni e tre rinvii dall’ultima volta, nel 2009, e non si può dire che quel Libano dagli odi eterni e dalle vendette feroci, non esista più. Ma le occasioni di scontro sono sempre più rare e, invece, si fa strada un certo pragmatismo comunitario che rende più accettabile la tradizionale spartizione di potere su base settaria tra cristiani, musulmani sciiti e musulmani sunniti. Restano da verificare gli effetti delle nuova legge elettorale che, basata sul proporzionale e sulla doppia preferenza, potrebbe favorire l’ingresso di un certo numero di indipendenti. Gli esperti non si aspettano che i 3 milioni e mezzo di elettori diano vita a una rivoluzione nelle urne. Il nuovo parlamento (128 seggi) che uscirà da un bacino di 600 candidati suddivisi in 77 liste dovrebbe molto somigliare a quello uscente, dove una buona quota di deputati avevano e hanno ricevuto la candidatura in eredità o per altri legami familiari. Una novità potrebbe venire dalle 84 candidature femminili, mai così numerose, presenti in liste che si rifanno alla società civile. Nonostante le previsioni, tuttavia, queste di domani sono elezioni attese, scrutinate attentamente soprattutto fuori dal paese. Sembra, infatti, che il grande duello fra Israele e Iran, o per meglio dire tra Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita da un lato, e Russia, Iran e Siria dall’altro, che rischia di spingere il Medio Oriente nel baratro di una nuova guerra, passi anche da qui, da Dayeh, il quartiere a sud di Beirut, roccaforte di Hezbollah, la milizia sciita libanese che lo Stato ebraico vede come una minacciosa punta di lancia manovrata da Teheran. Ma Hezbollah, che i dirigenti americani considerano un’organizzazione terrorista, non è soltanto una forza paramilitare che si è rivelata decisiva nel soccorrere e mantenere in vita il regime di Bashar el Assad, quando sembrava che stesse per esser travolto dai ribelli siriani. Hezbollah è anche un partito capace di imporre un suo ruolo dominante nella vita politica libanese, seppure assieme ad un altro partito sciita, Amal. Ora, secondo le previsioni, la coalizione basata sul tandem sciita Hezbollah-Amal più gli indipendenti, dovrebbe superare il 30% e conquistare 42 dei 128 seggi in gioco. Abbastanza per garantire la continuità dell’alleanza di governo con il partito del generale Aoun. In questo stesso contesto all’insegna di minimi spostamenti in un senso o nell’altro si collocherebbe la prevista sconfitta della corrente “Futuro”, che gode dell’appoggio dell’Arabia Saudita e fa capo all’attuale premier Saad Hariri: dovrebbe passare da 32 a 25/26 seggi, continuando tuttavia a essere il maggior partito rappresentato in parlamento e, dunque, idoneo a mantenere la guida di un governo “inclusivo”. Tutto sta a vedere come i dirigenti sauditi e il principe ereditario Mohammed Bin Salman (MBS) reagiranno all’indebolimento politico di Hariri. – Alberto Stabile