la Repubblica, 5 maggio 2018
L’Iran aspetta le sanzioni
TEHERAN Ero arrivato a Teheran 15 giorni fa. Quel 20 aprile un euro valeva 60.000 rial (la moneta locale). Ammesso che si riuscisse a trovare un ufficio cambi aperto. La banca centrale per affrontare l’emergenza-svalutazione aveva sospeso le operazioni in valuta estera. Sono ripartito ieri sera, e sulla piazza Ferdowsi di Teheran, dove il mercato nero prospera alla luce del sole, si potevano ottenere 70.000 rial per un euro. L’inflazione ufficiale dei prezzi al consumo è già alta: 16% annuo. Ma l’inflazione del cambio, in base alla mia esperienza, è stata del 16% in due settimane. Il turista è costretto a calcolare in milioni di rial i conti d’albergo e ristorante, a maneggiare voluminosi plichi di banconote per qualsiasi transazione. In altri tempi e luoghi questo era un sintomo di panico, da vigilia di guerre rivoluzioni o golpe, coi risparmi in fuga verso valute sicure e beni-rifugio. In Iran è semplicemente una vigilia tesa. Ho attraversato il paese lungo un itinerario da Teheran via Qom a Kashan, poi Esfahan, Yazd, Kerman, Mahan, Shiraz. Proprio mentre scattava il conto alla rovescia verso il 12 maggio. Tra una settimana il “mio presidente” Donald Trump può stracciare l’accordo nucleare con l’Iran e ripristinare tutte le sanzioni economiche che erano state levate (solo parzialmente) da Barack Obama nel 2016. Il timore delle ripercussioni colpisce un’economia già malata. Con la disoccupazione giovanile stimata al 30%, in un paese di 80 milioni di abitanti, dove l’età media è 29 anni e il 40% della popolazione ha meno di 24 anni. In questi giorni è stato bloccato Telegram, il social media più usato dagli iraniani. Si dice che gli apparati di sicurezza abbiano preso questa precauzione per timore di nuove proteste anti-governative, come quelle che a dicembre esplosero in 80 città e furono represse con oltre venti morti. Ma il blocco di Telegram accade di frequente, e gli iraniani sono abituati ad aggirare la censura usando Whatsapp, Instagram. Il controllo dell’informazione non è a tenuta stagna. Ho avuto facile accesso a molti siti stranieri; nulla di paragonabile alla censura che vige in Cina. Il 12 maggio è una data importante ma sarebbe un’esagerazione affermare che l’Iran l’attende col fiato sospeso. Non è un paese al collasso. Gli effetti di quelle sanzioni che sono comunque rimaste in vigore (e sono tante, per esempio sul sistema bancario) non sono neppure lontanamente paragonabili all’embargo su Cuba. Il tenore di vita è quello di una nazione emergente di medio livello, già piena di automobili (fin troppe a Teheran) e beni di consumo. Si vive incollati agli smartphone e il wi-fi è diffuso. Con la fine parziale delle sanzioni petrolifere l’Iran è tornato al terzo posto nella classifica degli esportatori di petrolio membri dell’Opec, e si vede. Teheran è tutta un cantiere, nella megalopoli da 17 milioni di abitanti la speculazione edilizia è selvaggia. Gli ultimi due giorni che ho passato nella capitale coincidevano con un ponte festivo: i parchi di Teheran erano invasi da famiglie per i picnic tra gli alberi, gruppi di ragazze in gita scolastica dalla provincia (divisa obbligatoria: abito viola e velo nero), sportivi dei due sessi che praticano running e arti marziali all’aperto, compresa una classe mista uomini-donne di yoga. L’ultima sera ero in un locale di giovani, “Romance”, dove una ragazza vedendo gli stranieri si è alzata dal tavolo degli amici e ci ha deliziati suonando il pianoforte. Per atteggiamenti, espressioni, modi di vestire, avremmo potuto essere in un bar della California. A parte il velo, s’intende. Se non sono evidenti a occhio nudo i segni di un’esplosione sociale imminente, tuttavia per due settimane ho raccolto gli sfoghi della gente. Senza bisogno di forzare la loro discrezione. L’insofferenza degli iraniani è diffusa, a fior di pelle. Il malcontento è generale, dalla capitale alle provincie la voglia di lamentarsi è irrefrenabile. La sera in cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha accusato l’Iran di aver mentito sui piani nucleari, mi trovavo con amici a casa di un pastore ex-nomade “sedentarizzato”, in un villaggio a 75 km da Shiraz. Grazie all’antenna satellitare Netanyahu era visibile sul canale iraniano della Bbc, con sottotitoli in lingua farsi. I miei compagni di cena lo ascoltavano con attenzione, ma le loro preoccupazioni erano rivolte altrove. Il patriarca della famiglia, parlando degli ayatollah, faceva un lungo gesto con la mano, quasi a volerla infilare nella manica della camicia, e poi scivolare giù giù fino ai pantaloni. Me lo hanno tradotto i figli: “Il clero ruba a tutto spiano, la loro avidità non ha limiti, quelli hanno tasche così profonde che cominciano all’altezza delle spalle e scendono fino alle caviglie”. C’è un punto su cui tanti iraniani sembrano pensarla quasi come Trump e Netanyahu: l’insofferenza verso le avventure militari iraniane nei paesi vicini. Il sostegno del regime degli ayatollah alla guerra di Assad in Siria, agli Hezbollah in Libano, ai guerriglieri sciiti nello Yemen: tutto questo costa caro. Sottrae risorse che potrebbero essere investite per dare lavoro ai giovani. La critica spesso si esprime con una connotazione etnica: “Smettiamola di occuparci degli arabi”. Affiora un antico senso di superiorità, dall’alto di una civiltà persiana che ebbe un millennio di storia gloriosa prima ancora che nascesse l’Islam. E l’idea che “gli arabi” sono una fonte di problemi. Insofferenza e malcontento però non sembrano avere dei leader. È onnipresente la potenza dei militari, soprattutto le milizie religiose dei pasdaran che con il marchio Sepah controllano grandi banche e buona parte dell’economia del paese. I pasdaran gestiscono un Welfare e un sistema clientelare che distribuisce favori a milioni