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 2018  maggio 05 Sabato calendario

Intervista a Paolo Giordano

Paolo Giordano si è appena trasferito a Roma da Torino, città dove è nato e dalla quale non si è mai mosso. «A parte i viaggi di piacere – parto poco, amo sempre meno fare il turista – ho viaggiato solo leggendo i libri degli altri». È come se nei suoi 36 anni ne fossero contenuti molti di più, come se il ragazzo del liceo Segrè che è stato e che continua a chiamarlo corresse avanti e indietro nelle altre sue età della vita, comprese le prossime. Nel suo nuovo romanzo, Divorare il cielo (Einaudi), al quale ha lavorato quattro anni e che esce a dieci dal folgorante successo della Solitudine dei numeri primi, premio Strega quando ne aveva 26, si congeda dalla giovinezza. La ripercorre da capo, la riprende dall’adolescenza e la porta a fine. Puglia arcaica, Puglia di ulivi senza mare. Tre fratelli che non sono fratelli, un padre che non di tutti è padre e che li cresce nel culto di una religione propria – una setta, dicono gli altri di loro. Una ragazza di buona famiglia che arriva da Torino in vacanza, li spia di là dal muro che divide la masseria dei “fratelli” dalla villa. Dieci anni di vita in comune, durante i quali tutti e quattro cercano qualcosa in cui credere senza morirne. Tutti insieme e ciascuno da solo. È possibile? Esistono utopie che non uccidono, che non si uccidono? «Non lo so, ma ne ho sempre avuto molta nostalgia. La nostalgia di una fede, di una forza superiore che muove le azioni e le orienta. Una specie di nostalgia di quello che manca, che ci manca. Il senso di perdita di qualcosa che non abbiamo avuto». Un sentimento così sudamericano. «La masseria è un po’ una Macondo, in effetti. La letteratura sudamericana ha questo dono di raccontare grandi epopee in luoghi confinati, chiusi. La masseria è il luogo da cui i quattro ragazzi cercano la chiave che possa dare senso alla vita». Perché la Puglia, da Torino? «È un elemento generativo. Sono quindici anni che ci vado con fervore e interesse. Ho preso casa vicino a San Michele Salentino, una zona ancora arcaica, una terra fertile di spiritualità legata alla natura. Io non ho mai abbracciato un ulivo, come i miei protagonisti, ma percepisco di non avere accesso a qualcosa che desidero. Quella cosa non l’ho avuta. Mi sarebbe piaciuto avere radici in una terra forte. Invece vengo da quella che a Torino si chiama la prima cintura. Una periferia di prossimità». I quattro ragazzi. Teresa, la torinese, e i tre fratelli pugliesi: Bern, Tommaso e Nicola. Chi è apparso per primo, sulla pagina? «Bern. Quando andavo al liceo, a Torino, era una scuola temuta e rinomata, mi sentivo estraneo a quel mondo. Ci ero arrivato perché abitavo vicino, ma gli altri avevano qualcosa di diverso. Di più, mi sembrava. C’era un ragazzo più grande di me, era vestito di nero portava gli anfibi aveva le maglie delle band. Per un periodo con grande degnazione prese a farmi le cassette dei suoi gruppi preferiti. Una sorta di mentore. Tutti lo guardavano di traverso senza capirlo. Era l’oggetto misterioso, che attrae. La prima immagine di Bern è stato lui. Ho fatto in modo, nel romanzo, che siano sempre gli altri a raccontarlo. Resta comunque, fino in fondo, inaccessibile». Cosa ne è del suo compagno di scuola? «Non lo so e mi farebbe paura scoprirlo. Chi ha dato l’assalto al cielo si è imborghesito o è morto. Non vorrei vederlo stempiato coi figli per mano. Scrivere è anche un modo disperato di aggrapparsi alla possibilità di creare simboli assoluti, nella propria vita». Tommaso, uno dei tre “fratelli”, è albino. Diverso in un modo inestirpabile. «Fai scelte che ti sembrano casuali e rispondono a ragioni profonde. Avevo visto un giorno quel ragazzo vestito di nero, il mio antico compagno, per strada insieme a un ragazzo bianchissimo. Un’immagine così forte. Le polarità che si attraggono. Poi lavorando al libro ho ripensato alle mie estati al mare. Mi sentivo albino senza esserlo. Mi bruciavo, mi veniva la febbre. È successo tante volte. Ho il terrore del sole, ancora. Essere diversi è una condizione che attrae e spaventa: la Solitudine dei numeri primi era un libro su questo. Sentirsi speciali ti può fottere la vita». Nicola, il vero figlio del padre-guru, cresce nella libertà semianarchica e finisce per diventare uomo d’ordine. «Nicola fin da piccolo deve accogliere, trattare come fratelli ragazzi che suoi fratelli non sono. Un insegnamento giusto e nobile ma il bene non è qualcosa che si adatta a tutti. La richiesta di disponibilità per lui è una violenza. È chiamato a un compito di cui non è all’altezza». Oltre il confine della masseria c’è la villa dove Teresa torna l’estate, sola col padre, nella casa della nonna. Un muro che divide classi sociali, un’atmosfera da Finzi-Contini, una piscina dove tutto comincia. Lei trascorreva le vacanze dai nonni, da bambino? «Nelle campagne di Piacenza, i luoghi di mia madre. Una campagna piatta, piena di zanzare, eppure: l’altrove mitico dell’infanzia. Un anno i miei zii costruirono una piscina. Per me, da piccolo, la piscina era un desiderio che durava tutto l’anno». Teresa torna a vivere nel luogo da cui il padre è partito, ragazzo, e dove la madre non mette piede. Terribile questa madre torinese. «La madre di Teresa ha tagliato a metà l’uomo che ha sposato. Ha preso quel che voleva che fosse, e che anche in parte era: lo ha portato, non solo fisicamente, a Nord. Ha distolto lo sguardo dalle viscere, dalle pulsioni del suo essere uomo del Sud. Il romanzo potrebbe essere anche solo la storia di Teresa e suo padre. La figlia agisce sul desiderio inespresso del padre: una cosa molto potente che fanno i bambini di cui non si tiene abbastanza conto, non si dice. I figli abitano le zone non dette dei loro genitori. Conoscono i desideri frustrati, le mancanze, i vuoti: li conoscono tanto più quando vengono occultate, e li percorrono. Il non detto. Quello che resta nascosto». Tra la nonna pugliese, che sembra aver spinto il figlio a lasciare la sua terra, i genitori di Teresa, che non vogliono che lei ci torni, c’è la malattia dell’andare e tornare dal luogo d’origine, le radici. «Un male di tutti, soprattutto al Sud». Gli alberi, grandi protagonisti del romanzo, muoiono sterminati da insetti. I ragazzi non usano pesticidi. Cercano un Eden secondo natura. «Lo trovano a un prezzo altissimo. Solo Teresa, credo, trova equilibrio nel bilico». C’è una grande questione aperta sul tema del generare figli: nascono dove non devono, non nascono quando possono. Ossessionano. «Sì, mi pare che si sia smarrita la naturalezza dell’avere figli. È tutto molto deliberato, attorno a noi. Tutto un po’ artificioso. Con un accenno di fanatismo. Una figlia nasce nella coppia sbagliata, e dà un senso alla vita della madre che fin li non lo aveva. Ma quelli che cercano senso nei figli, non lo trovano». Il racconto ha una struttura architettonica di stanze che si aprono una dentro l’altra. Somiglia a quelle antiche case dove la luce arrivava solo in ingresso e sul retro. «Volevo che nessuno parlasse di sé, che fossero sempre gli altri a farlo. Sono cinque, forse sei stanze che entrano ciascuna in un nuovo racconto. Scrivere è anche una sfida alla scrittura: ingaggi una battaglia rispetto a qualcosa della letteratura». Cosa leggeva, durante il lavoro? «Faulkner. Tutto, ma il libro talismano è stato Assalonne, Assalonne. Ne leggevo sempre qualche pagina prima di cominciare». A Parigi. «A Parigi, in solitudine. Per un tempo, nell’intermittenza, lungo. Amo il tempo monastico, pieno di vuoto. Non frequento i social network, ma in generale: non frequento se non gli intimi. Mi sento in questo di appartenere a un mondo antico. Preferisco il silenzio».